Corriere 1.12.15
Le musulmane: «Chi ci ferma sono gli uomini non la religione»
di Goffredo Buccini e Alessandra Coppola
«Gli uomini sono preposti alle donne, a causa della preferenza che Allah concede agli uni rispetto alle altre…», recita il Corano alla Sura IV ( An-Nisa’ , Le Donne), versetto 34. Naturalmente il cuore del problema sta nella contestualizzazione storica. In Italia l’uso che i maschi fanno del concetto è talvolta criminale. L’omicidio della pachistana Hiina Salem, massacrata e sepolta nel 2006 dal padre con l’aiuto di alcuni parenti maschi, e quello della marocchina Saana Dafani, accoltellata dal padre nel 2009, hanno acceso un faro sulla condizione di giovani donne accusate di comportamenti troppo occidentali.
M a me la danno la lavatrice, da voi, in Siria? E me lo posso portare, laggiù, Adriano il gatto? Il lessico familiare, via Skype, di mamma Assunta con la sua balenga figliola Maria Giulia, divenuta Sorella Fatima nel Califfato, racconta molto della gran confusione mentale che ha indotto e induce una pattuglia di donne europee e, ormai, più d’una italiana, a ingrossare le file dell’Isis. Frustrazione e spaesamento, ingenuità ed esaltazione, talvolta soltanto desiderio di raggiungere qualcuno che si ama ed è già lì, a metà tra palingenesi globale e piccolo riscatto quotidiano.
Un picco vistoso. Secondo un rapporto riservato dell’antiterrorismo sui foreign fighterse la loro area di reclutamento, «le donne sono circa il dieci per cento di chi ha lasciato l’Occidente: età tra i 16 e i 24 anni, molte laureate». E tuttavia la «Sorellanza» è assai poco rappresentativa di 644 mila musulmane d’Italia, soprattutto albanesi e maghrebine, in stragrande maggioranza inserite nella nostra società.
Lo spazio vuoto
«Se sei interessata a una cintura esplosiva più c he a un abito bianco o alle fantasie delle principesse di Disney, vieni da noi», promettono i propagandisti di al-Zawra , la scuola jihadista che da Raqqa offre corsi di cucina e legge islamica, di economia domestica, armi e social media a centinaia di giovanissime come Merieme Rehally, Sorella Rim nel mondo Twitter , la studentessa che a luglio ha lasciato Padova per arruolarsi nella logistica sotto le nere bandiere di Al Baghdadi. Nello spazio vuoto del relativismo, al tempo stesso frutto maturo e tallone d’Achille dell’Occidente, un messaggio che pretende di dividere il bene e il male con la spada può penetrare a fondo. L’antidoto, forse, è riempire quello spazio vuoto con la razionalità. Cercando di ascoltarle, le voci delle migliaia di musulmane attorno a noi. Al di là del velo, anche.
«Qualcuno provi a mettersi un fazzoletto in testa e a cercare lavoro», scriveva provocatoriamente l’italo-giordana-palestinese Sumaya Abdel Qader: «Beh, le probabilità di riuscirci tendono allo zero!». Era il 2008 e, pioniera tra le seconde generazioni, Sumaya aveva creato il personaggio ironico di Sulinda, 30 anni. E nel romanzo autobiografico Porto il velo, adoro i Queen (Sonzogno) scherzava sull’ hijab , che incornicia il viso, rivendicando la libertà di indossarlo: «Non ne possiamo proprio più del pregiudizio che le velate siano delle sfigate nascoste sotto una tenda. È vero, ci sono Paesi dove il velo è obbligatorio e le donne non se la passano certo bene, ma la colpa non è della religione, bensì del delirio di onnipotenza di certi uomini che, soffrendo di misoginia, si sfogano prendendosela con l’altra metà del cielo e inventandosi mille giustificazioni».
Il velo e l’identità
Dunque il velo non è un simbolo di oppressione? «In Italia, come nel resto d’Europa e in generale nel mondo musulmano, è tornato al centro della sfera pubblica, frutto di una libera scelta», risponde Renata Pepicelli, docente alla Luiss e curatrice con Ivana Acocella di un recente volume del Mulino sulle giovani musulmane: «Soprattutto, sempre più donne di seconda generazione scelgono di indossarlo», spiega. «Dagli anni Novanta in poi si è assistito nel mondo a un revival religioso (non solo musulmano) in cui i simboli acquistano forza. E il velo è un simbolo per antonomasia». Diventa poi anche «bandiera per una comunità che si è sentita in blocco sotto attacco dopo l’11 settembre 2001», con una motivazione identitaria. Infine, si trasforma in vessillo politico, «in opposizione ai regimi del mondo islamico ritenuti illegittimi e dittatoriali, ma anche contro le spinte assimilazioniste in Europa», per esempio contro le regole francesi che l’hanno vietato a scuola. Questione d’orgoglio, allora...
«Non direi però che si tratta di un ritorno», puntualizza Souheir Katkhouda, presidente dell’Associazione donne musulmane d’Italia: «Il velo è la continuazione della buona educazione proposta dalla famiglia, così come succede nelle famiglie cristiane. E sarebbe ora di andare oltre». Siriana di origine, 55 anni (gli ultimi quaranta dei quali a Milano), sette figli di cui 4 femmine, Katkhouda ha esperienza anche di seconde generazioni: «Una delle mie figlie si è appena laureata al Politecnico, ingegnere. Si continua a parlare di queste ragazze per come si vestono, e non per come si comportano da cittadine italiane di fede musulmana». Se nelle scuole e nelle università questa «stranezza» le sembra ormai superata («per i loro compagni non c’è differenza») di nuovo «qualche problema resta nel cercare lavoro, perché la gente non è ancora abituata». Molte musulmane di seconda generazione sostengono che proprio il rifiuto dal lavoro, con conseguente impossibilità di indipendenza economica, le spinga di nuovo sotto padri, mariti, fratelli. Ma spesso la faccenda è più complessa .
Se l’unica finestra è una tv
«Gli uomini sono preposti alle donne, a causa della preferenza che Allah concede agli uni rispetto alle altre…», recita il Corano alla Sura IV ( An-Nisa’ , Le Donne), versetto 34. Naturalmente il cuore del problema starebbe nella sua contestualizzazione storica. Per i fondamentalisti il testo sacro è per definizione infallibile e metastorico. A «ricordarlo» alle ragazze occidentali dentro la «Sorellanza nel Califfato» ci sono due brigate, a Raqqa in Siria e ad al-Anbar in Iraq: la Umm al-Rayan e la al Khansa , che vigilano sulla «pubblica moralità».
Da noi l’uso che i maschi fanno di questo concetto è talvolta criminale. L’omicidio della pachistana Hiina Salem, massacrata e sepolta nel 2006 dal padre con l’aiuto di alcuni parenti maschi, e quello della marocchina Saana Dafani, accoltellata dal padre nel 2009, hanno acceso un faro sulla condizione di giovani donne accusate dalle famiglie di avere comportamenti e frequentazioni troppo occidentali.
Ma c’è chi sostiene sia ingiusto tirare in ballo l’Islam e più corretto prendersela con una cultura arcaica, con codici di comportamento derivati da remoti villaggi del Punjab o del Medio Atlante. Le caratteristiche della migrazione pachistana e bangladese in Italia, del resto, costringono spesso la donna a ruoli defilati, in alcuni casi ai limiti della segregazione. La prima generazione è guidata da uomini soli che partono per lo più da condizioni disagiate. Le mogli arrivano coi ricongiungimenti e di frequente restano in casa: non escono a lavorare, non imparano l’italiano, la loro unica finestra è la tv satellitare che trasmette in urdu o in bengalese. Tutt’altra storia con i figli che vanno a scuola e si «italianizzano», senza perdere però il retaggio familiare. Un peso soprattutto per le femmine, dall’adolescenza in poi: l’imposizione di abiti consoni, il matrimonio combinato con ragazzi dei villaggi d’origine, maggiori limitazioni rispetto alle coetanee.
Uomini che odiano le donne
Le infibulazioni, non prescritte dalla religione islamica, sono state in Italia almeno 14 mila in dieci anni, fino alla legge che, nel 2006, le vietò. I non infrequenti casi di poligamia (prevista invece dal Corano alla Sura IV versetto 3) sono altra benzina sul fuoco. Luisa, vittima per 7 anni di suo marito Issam, sposato con un’altra donna in Egitto, ne descrive il cambiamento nei gesti e nelle parole, la progressiva «radicalizzazione a causa di frequentazioni sbagliate»: «Mi diceva: se ci nasce una femmina e si veste come voi italiani, giuro che vi ammazzo tutte e due».
«Noi» e «loro». Radici ed eredità. Fardelli che trascineremo per anni, logorandoci. Appare arduo attribuire a un testo, quale che sia, le colpe di chi probabilmente non ne ha mai letto alcuno e agisce per brutale incultura, per riflesso atavico, per mera ripetizione di modelli assimilati.
E del resto solo chi soffre d’amnesia può azzardare rampogne. Fino a trentaquattro anni fa, il delitto d’onore consentiva a un marito italiano tradito di accoppare la moglie cavandosela con blande conseguenze. Fino a trecento anni fa, applicavamo alle streghe il Malleus Maleficarum , un «codice» di procedura penale vergato da due domenicani a fine Quattrocento.
Quando questi nostri giorni di piombo saranno passati, non sarà male rammentarlo; ricordando a noi stessi che la storia ha per ciascuno un proprio passo. E riscoprendo, magari, la pietà dimenticata nel negare funerali cattolici in morte di mamma Assunta che, più della lavatrice o della guerra santa, sognava di poter vivere ancora un po’ accanto a sua figlia: si chiamasse Maria Giulia o Fatima.