giovedì 31 dicembre 2015

Corriere 31.12.15
L’icona senza icone
il fascino «ecumenico» di Miró in quel segno libero e gioioso la sua «fuga» dal pessimismo
di Francesca Bonazzoli


Non è difficile riconoscere «un Miró»; e ancor più facile è amare quelle tele fatte di cerchi, stelle, pupazzi, strani uccelli, macchie, cerchi e triangoli colorati. Miró piace a tutti, grandi e bambini, perché c’è solo da guardare e niente da capire nei suoi segni liberi e gioiosi. È la tipica arte davanti alla quale anche coloro che non lo sono, si sentono artisti e pensano: lo so fare anch’io. Eppure, nonostante siano così accessibili e riconoscibili, nessuno dei quadri di Miró è diventato un’icona come per esempio l’Urlo di Munch o La Danse di Matisse.
È un fenomeno che si riscontra soprattutto nell’arte astratta, analogo a quanto avviene, per esempio, con Mondrian e le sue tele di rettangoli colorati separati da strisce nere. Tuttavia, la stessa sorte è toccata anche alle Ninfee di Monet che, pur forzando la forma al punto di non ritorno verso il segno astratto, restano immagini figurative. Il mondo intero le conosce, ma nessuna delle circa duecento versioni è diventata un’icona, incontrastata portabandiera delle altre. Il motivo, dunque, che ha impedito a una singola opera di Miró o Mondrian o Monet di diventare un’icona, è la serialità del soggetto, o del segno: la riproduzione in molteplici varianti può determinare la riconoscibilità dello stile dell’artista, ma è di ostacolo all’affermazione di una singola opera.
La formula del successo dello «stile Miró » sta nell’aver saputo unire la ripetitività del segno alla sua libertà. Libertà d’interpretazione da parte di chi guarda; libertà dai messaggi; libertà dalle regole accademiche; libertà dalle ideologie.
«I dogmi mi danno fastidio», affermò per spiegare la sua posizione defilata nel gruppo dei Surrealisti, atteggiamento che gli causò anche una scomunica (in seguito revocata) da parte del sommo pontefice André Breton che lo accusava di aver profanato l’ideologia sovversiva, rivoluzionaria, del Surrealismo e di lavorare per compiacere l’alta borghesia. Anche Miró, come Matisse, rimase politicamente in disparte in un’epoca storica in cui, tutt’intorno, scoppiavano guerre mondiali e civili. Nella sua opera i segni di quegli avvenimenti sanguinosi non sono evidenti e persino i quadri che appaiono più tragici, le «Pitture selvagge», furono eseguiti poco prima dello scoppio della Guerra civile spagnola. Il suo maggiore coinvolgimento politico si espresse attraverso la partecipazione alla mostra del Padiglione della Repubblica spagnola durante l’Esposizione Internazionale di Parigi, cosa che in seguito gli costò l’emarginazione dalla cultura ufficiale del regime franchista.
Non aveva nulla nemmeno degli atteggiamenti eccentrici dei colleghi parigini. Il fotografo Brassaï, che lo incontrò nello studio di Barcellona, lo descrisse così: «La testa rotonda e il viso roseo da neonato non gli impediscono di agghindarsi come un vero dandy. L’esigenza d’ordine e di pulizia si rispecchiano nel suo atelier, in cui pennelli e tubetti di colore sono meticolosamente ordinati come in un laboratorio».
In procinto di lasciare quell’atelier per trasferirsi a Palma di Maiorca, Miró accompagnò il fotografo in un giro di commiato per la città dimostrandosi di un’insolita loquacità: «Fortunatamente Miró non era più la persona discreta, educata e sorridente, ma impenetrabile e taciturna che avevo conosciuto a Parigi».
Pare che, nei circoli intellettuali della capitale francese, il suo mutismo irritasse molto gli astanti e d’altronde era lo stesso Miró a definirsi «di natura tragica e taciturna». Il suo pessimismo gli faceva temere che tutto potesse trasformarsi in male. Uno stato d’animo apparentemente in contraddizione con l’aspetto colorato e ludico della sua opera. «Se c’è qualcosa di umoristico nei miei dipinti», diceva, «non l’ho cercato coscientemente. Questo umore nasce dal fatto che sento la necessità di sfuggire il lato tragico del mio temperamento. È una reazione, ma involontaria».
Raramente la lettura dell’intera opera di un artista diverge così radicalmente dalla sua biografia. Chi, guardando le opere di Miró , potrebbe dire che era un pessimista?
Proprio nessuno. E infatti i segni di Mirò sono stati usati per una campagna che negli anni Ottanta pubblicizzava Barcellona come la città della movida catalana fatta di «bar, cel, ona», ossia bar, cielo e onda del mare. L’immagine grafica non utilizzava un preciso quadro di Miró , ma solo i suoi colori e il suo tipico segno grafico di stelle, tondi e rettangoli irregolari. Tutti potevano immediatamente riconoscere Miró, ma la città non ha dovuto pagargli i diritti d’autore.