Corriere 30.12.15
Calano le matricole
Università Il declino da fermare
di Ernesto Galli della Loggia
Per la prima volta nei 150 anni della sua storia l’Italia vede diminuire il numero degli studenti immatricolati all’università (meno il 20 per cento nell’ultimo quinquennio). Ciò avviene in concomitanza con una forte contrazione quantitativa che colpisce tutta la nostra istituzione universitaria. Più o meno nello stesso periodo, infatti, i docenti sono diminuiti del 17 per cento, e all’incirca della stessa percentuale il personale amministrativo, mentre l’ammontare dei finanziamenti ordinari che lo Stato versa agli atenei segna una diminuzione di ben il 22,5 per cento in termini reali. La spesa statale per borse di studio è ferma da dieci anni a 160 milioni annui (quindi cala in termini reali). In sostanza, rispetto al totale della spesa pubblica il comparto universitario è quello che ha fatto segnare negli ultimi anni la maggiore riduzione del personale e della spesa stessa. Il brillante risultato di questa politica di vero e proprio disinvestimento in un settore come quello dell’istruzione superiore e della ricerca — che peraltro in ogni occasione tutti si affannano a definire cruciale, importantissimo, decisivo — è che oggi l’Italia è all’ultimo posto in Europa per numero di giovani provvisti di laurea. Il ministro Giannini conosce certamente queste cifre. Nel caso contrario non ha che da dare un’occhiata al rapporto della Fondazione Res curato da un valente economista come Gianfranco Viesti, dedicato per l’appunto alle condizioni dell’università italiana.
Dove un dato drammatico emerge, insieme a quello della forte contrazione del finanziamento statale: la crescente disparità di condizioni fra atenei del Nord e atenei del Sud.
Il calo delle immatricolazioni nel Sud e nelle Isole è, per esempio, più che doppio rispetto al Nord del Paese (e riguarda, fatto significativo, specialmente i giovani provenienti dalle famiglie meno abbienti). Cresce poi il numero degli studenti meridionali che si iscrivono nelle università centro-settentrionali (il fenomeno inverso è quasi inesistente, com’è inesistente la mobilità all’interno dell’area meridionale). Al Sud, una percentuale di studenti oscillante tra il 17 e il 25 per cento a seconda delle sedi abbandona gli studi, contro una percentuale nel Centro-Nord del 12-15 per cento. Infine, il numero dei posti nei corsi di dottorato, la possibilità di assunzione di nuovi docenti, le loro possibilità di carriera, tutti questi fattori vedono gli atenei del Mezzogiorno più o meno gravemente indietro rispetto a quelli del resto del Paese. Ora, se è del tutto fisiologico che in un Paese esistano sedi universitarie più dotate e altre meno, è viceversa sicuramente patologica una situazione come quella italiana dove in tutto il Sud non si registra neppure un centro universitario di eccellenza (un buon dipartimento qua e là non serve a cambiare il quadro), mentre questi, invece, sono tutti concentrati al Nord con qualche oasi fortunata al Centro.
Il nostro sistema universitario soffre insomma di una doppia criticità. Da un lato esso vede da anni le proprie risorse diminuire (mentre in Francia, Germania e Spagna avviene il contrario); dall’altro esso si presenta sempre più come un sistema differenziato, con un Sud che arretra progressivamente. Ancora una volta due Italie, dunque, e ancora una volta sempre più lontane: un giovane nato a sud del Tevere (in questo caso bisognerebbe forse dire a sud dell’Arno) è destinato, novanta probabilità su cento, a studiare in un’università di serie B.
Anche in questo ambito la prima spiegazione va cercata in un divario storico di partenza tra le due parti del Paese. Al quale si sono poi aggiunte nel Sud le ben note condizioni economiche ambientali sfavorevoli, la povertà dei circuiti culturali locali, élite politiche cittadine e regionali quasi sempre prive di visione e di capacità, la peste del baronato con punte record di clientelismo accademico e non. Un peso tutto particolare ha avuto infine una legislazione sciagurata che, facilitando il reclutamento del corpo docenti all’interno di una stessa sede universitaria, ha impedito quella circolazione su base nazionale dei professori che prima era la regola. Gli atenei meridionali si sono trovati così come rinchiusi irreparabilmente nei propri mali e nei propri vizi, condannati a una progressiva subalternità.
Una subalternità che peraltro è stata ancor più accentuata dalla scelta politica compiuta dalle autorità ministeriali negli ultimi anni. I soldi non sono tutto, è vero, ma senza soldi non si può fare quasi nulla, senza soldi non si va molto lontano. Detta in poche parole, la scelta politica di cui dicevo è consistita nel decidere di distribuire i fondi statali ai vari atenei in misura differenziata, premiando quelli che adempivano meglio a una serie di condizioni. Specificare in dettaglio è in questa sede impossibile. Basterà dire che di fatto tali condizioni (livello delle tasse richieste agli studenti, quantità e qualità della produzione scientifica dei docenti, livello delle attrezzature, livello di internazionalizzazione) sembrano studiate apposta per premiare gli atenei che sono già ai primi posti e ricacciare così ancora più indietro quelli che sono agli ultimi. Ciò che infatti da anni, come si è visto, sta regolarmente avvenendo, a danno soprattutto delle sedi meridionali.
Ma paradossalmente ciò sta avvenendo senza che nessuno lo abbia discusso veramente. Senza che nessuno abbia discusso la questione cruciale. Vale a dire: che cosa si deve fare del sistema universitario italiano? Come deve essere? Puntare su poche sedi già oggi in buona posizione per cercare di farne dei veri centri di eccellenza di livello europeo può essere giusto, ma che fare allora delle altre e quali caratteristiche queste debbono avere? Ed è giusto che le sedi di eccellenza siano tutte o quasi concentrate in un triangolo della Pianura padana? Infine: si può immaginare un qualunque futuro per il sistema universitario riducendogli progressivamente i fondi come si fa ormai da troppo tempo?
Da ultimo una postilla: questo non vuole essere uno di quei piagnistei da «gufo» che tanto dispiacciono al nostro presidente del Consiglio. Al contrario: è un invito proprio a Matteo Renzi perché rivolga la sua attenzione a una questione cruciale per il Paese e intervenga come, se vuole, sa fare. Se gli servono idee, ammesso che egli pensi di averne bisogno, stia sicuro che in circolazione ce ne sono di ottime.