Corriere 29.12.15
Lo sviluppo da conquistare
La grande ricchezza sprecata Solo l’1,3% del Pil va all’innovazione
Nel primo semestre del 2015 abbiamo speso nel complesso 20 milioni. In Francia una cifra simile la dà un unico investitore
Siamo tra le prime 10 nazioni al mondo per pubblicazioni ma la bellezza del nostro genio scientifico e tecnologico non si trasforma in aziende e start up. L’unica soluzione: investire di più
di Massimo Sideri
Una volta il premio Nobel dell’economia Paul Samuelson disse che esistono quattro tipi di Paesi: quelli ricchi, quelli poveri, quelli naturalmente poveri che sono ricchi (unico caso: il Giappone) e quelli naturalmente ricchi che sono poveri (unico caso: l’Argentina). Oggi, con tutto il rispetto per Samuelson, quella fortunata intuizione andrebbe un po’ aggiornata: esistono sempre quattro tipi di Paesi: quelli innovatori quelli non innovatori, quelli naturalmente non innovatori che sono diventati campioni dell’innovazione (unico caso: Israele) e quelli naturalmente innovatori che non lo sono per niente (unico caso: l’Italia).
Così come l’Argentina ha tutte le risorse naturali del mondo, noi avremmo tutti gli ingredienti genetici dell’innovazione. La lista dei grandi «disruptor» italiani, antichi e moderni, esiste: Leonardo Chiariglione, l’inventore dell’Mp3. Federico Faggin, padre del microchip. Panfilo Castaldi, inventore del carattere mobile per la stampa, parallelamente a Gutenberg (in realtà la stampa a caratteri mobili esisteva già in Cina, lo stesso Castaldi aveva ricevuto in dote dalla moglie, nipote di Marco Polo, dei caratteri mobili cinesi, ma era un processo artigianale, non industrializzato). Ancora Antonio Meucci, padre del telefono al quale a Milano abbiamo dedicato solo una strada di periferia con scritto sotto «fisico» che, per inciso, è anche un errore: Meucci era un aiuto portiere della Porta di San Niccolò a Firenze. Oppure: in quanti sanno che la stabilizzazione dei polimeri (nota come plastica) viene da Giulio Natta, chimico premio Nobel? Basterebbe un’attenta passeggiata al Museo nazionale Scienza e tecnologia «Leonardo da Vinci» di Milano per ricordarlo. Ultimo esempio: il vuoto. È stato scoperto da un allievo di Galileo Galilei, Evangelista Torricelli nel 1641, anche se in molti libri (anche italiani) viene riportato Pascal! Possibile che il nostro passato sia diventato una grande zavorra?
Gregari dell’innovazione
Sul fatto che oggi siamo diventati poco innovatori non ci piove: lo dicono gli investimenti in Ricerca e sviluppo (1,3% del Pil), che sarebbero fondamentali per innescare nuovi percorsi di crescita. Lo dicono i 43 milioni di euro investiti complessivamente nel 2014 in start up alla base di nuova occupazione che prenda il posto di quella ormai malata di osteoporosi (purtroppo ,in attesa dei dati dell’Aifi, i segnali non lasciano sperare in grandi differenze nel 2015. Nel primo semestre sono stati investiti solo 20 milioni. E questo nonostante le grosse iniezioni finanziarie del Fondo italiano degli investimenti che ha cercato di ravvivare i fondi di venture capital, cioè quelli che dovrebbero sostenere questa economia nascente). Lo dice, ancora, l’assenza di grandi campioni nazionali nati ex novo nella mappa europea dell’innovazione (Fon in Spagna, BlaBlaCar in Francia, Rocket Internet in Germania, Spotify in Svezia, Supercell in Finlandia, mentre da noi si continua a citare Yoox, ora Yoox-Net-à-porter, che, però, risale al 2000. Quindici anni, anzi sedici a brevissimo, sono tanti, troppi). Il ministero dello Sviluppo economico dovrebbe chiamarsi «ministero della Gestione delle crisi aziendali» (nel 2015 ci sono stati oltre 150 tavoli di crisi, uno ogni due giorni, senza considerare le grandi aziende). L’innovazione, alla fine, funziona un po’ come un enorme social network tra Paesi, economie, regioni: c’è chi è un follower, che segue più o meno attivamente, e chi è leader. E proprio come in un grande Twitter interplanetario chi twitta si prende magari qualche insulto ma anche i benefici. Chi segue resta a guardare. La geoeconomia della ricerca e sviluppo — quell’acronimo R&S che sembra ricordare un brand di sigarette — potrebbe ridursi a questo: costi e benefici, un po’ come nella parabola evangelica in cui ad ognuno dei tre servi il padrone chiede come ha fatto fruttare i suoi danari.
Perché di questo si tratta: esiste una precisa correlazione tra tasso di crescita del Prodotto interno lordo e spesa in R&S secondo il rapporto di The European House Ambrosetti: noi siamo in basso vicini al Portogallo e sopra solo alla Grecia, imprigionati nella classica immagine del cane che si morde la coda: poca R&S significa poca crescita, poca crescita significa poca R&S. Gli altri si stagliano lontani come le Pleiadi. Peraltro nella stessa analisi grafica in cima si ritrova Israele, il Paese non naturalmente innovatore che ha costruito un ecosistema di start up laddove fino a pochi anni fa c’erano degli agricoltori. E pensare che con la nostra crescita allo 0,8% del Pil e la disoccupazione al 12% avremmo anche un altro degli ingredienti tipici dell’innovazione: lo stato di necessità. La draisina, l’antenato della bicicletta, fu sviluppata nel 1817 da un conte tedesco dopo la moria di cavalli da trasporto. Bartolomeo Diaz doppiò il Capo di Buona Speranza alla ricerca di una nuova via per l’Oriente visto che Costantinopoli era caduta in mano ai turchi ottomani guidati da Maometto II. Meucci stesso aveva inventato il telefono per comunicare con la moglie inferma che non poteva salire le scale.
Ricerca, povera ma bella
Spulciando tra le classifiche, peraltro, si scopre che un aneddoto di cui spesso si parla non è affatto infondato: se guardiamo alla qualità della nostra ricerca «in termini di numero di pubblicazioni scientifiche e citazioni, l’Italia mantiene un elevato profilo di competitività a livello globale» scrive il recente rapporto del think tank Ambrosetti sulle «Life sciences». «Le pubblicazioni italiane citate sono pari al 3,8% delle pubblicazioni mondiali; ciò porta il nostro Paese a classificarsi dentro le prime dieci posizioni», conclude. Ecco che superiamo la Svezia, la Gran Bretagna, Singapore — considerata la nuova patria dell’innovazione — gli Usa, la Germania, la Francia, Israele e anche la Corea del Sud. Abbiamo una ricerca eccellente, delle menti superiori, che però non pensano alla seconda parte dell’equazione, allo sviluppo. Le scoperte non diventano start up, le idee non si trasformano in imprese, curioso destino per il Paese famoso per il suo tessuto fatto soprattutto di Pmi, piccole e medie imprese. Secondo la recente relazione del ministero dello Sviluppo economico nel 2015 sono nate 1.501 start up innovative, meno che nel 2014 (1.537). Nel terzo trimestre risultavano coinvolte, rispetto a fine marzo 2015, 967 persone in più. Un dato che, senza nulla togliere agli sforzi dell’ecosistema, non può spostare nulla in un Paese importante come l’Italia. Secondo i dati della Commissione europea possiamo essere classificati come innovatori moderati. L’obiettivo dell’agenda europea 2020 per tutti i Paesi è il raggiungimento della soglia di investimenti in R&S del 3% rispetto al Pil, un risultato che è molto distante dai nostri attuali trend.
Qui dobbiamo essere onesti: il bello della ricerca, in Italia, va riscoperta come cerca di dire da tempo il numero uno di Assolombarda, Gianfelice Rocca. Ciò che manca è una catena dell’innovazione che possa alimentare tutti i passaggi per la creazione dell’ecosistema, dall’ambito universitario agli spin off (molte università si stanno dotando solo ora di un ufficio per il cosiddetto «technology transfer», cioè il passaggio della scoperta a un ambiente più imprenditoriale) fino ai vari facilitatori della crescita per una nuova impresa, dagli «angel investors», coloro che danno le prime risorse per muovere i primi passi, ai venture capital che dovrebbero sostenere il salto di qualità con milioni di finanziamenti. Se si vanno a guardare i dati Ocse 2015 si scopre che in Italia non esiste il finanziamento diretto alle attività di R&S, ma solo quello indiretto dato come incentivi fiscali.
Basterebbe prendere qualche esempio a caso dai Paesi limitrofi per smetterla di vedere solo il quarto di bicchiere pieno, invece dei tre quarti vuoti. Monsieur Minitel Xavier Niel, finito nelle cronache per l’ingresso in Telecom Italia, è un grande investitore in start up. La lista la potete trovare su Crunchbase.com: si va dal milione investito (come angel) in Smartangel.fr, agli 1,8 milioni messi come seed in Mailcloud fino ai 16,7 milioni in Save My Smartphone in qualità di venture. In Italia gli angel investono decine (sono spesso familiari e amici) o, al limite, centinaia di migliaia di euro. Sopra il mezzo milione siamo in un seed, mentre sul milione siamo in piena area venture capital. Giova ricordare che il Pil italiano è 2.150 miliardi mentre quello francese 2.800. Più alto, per carità. Ma non il doppio. Circa un mese fa, peraltro, il presidente francese François Hollande e la cancelliera tedesca, Angela Merkel — che pure, possiamo dirlo senza tema di strappi diplomatici, non sono proprio due statisti digitali — hanno annunciato un piano di sostegno al fondo Partech Venture da 400 milioni di euro. Soldi, non caramelle. I settori di eccellenza in Italia ci sono: le biotecnologie, le nanotecnologie, la robotica. La grande bellezza della ricerca è dietro l’angolo. Il segnale che i nuovi Meucci ci sono c’è, ma che si possa sostenere il mondo dell’innovazione, della ricerca e delle start up senza grandi quantità di finanziamenti è una favola che si ascolta solo in Italia.