martedì 22 dicembre 2015

Corriere 21.12.15
Nel profondo della psiche

Il viaggio di Oliver Sacks 1933-2015 Scienziato umanista
Confessioni appassionate di un neurologo inquieto: sensi di colpa, esperienze estreme, sete di conoscenza ma anche voglia di vivere e amore per i pazienti
di Pietro Citati


Oliver Sacks (1933-2015), nato a Londra da una famiglia ebrea ma poi stabilitosi negli Usa, era un neurologo e uno scrittore. Il suo ultimo libro In movimento , pubblicato in Italia da Adelphi nella traduzione di Isabella C. Blum (pagine 414, e 22) è una sorta di resoconto dell’autore sulla sua esistenza densa di passioni, di dolore e di eccessi. Sacks vi narra il suo rapporto difficile con la famiglia d’origine, la dipendenza dalla droga, i successi e le polemiche che ha suscitato.

Come dice il titolo del suo libro ( In movimento. Una vita , traduzione di Isabella C. Blum, Adelphi) l’impulso fondamentale di Oliver Sacks era il movimento. Durante l’ultima guerra mondiale, venne rinchiuso ed esiliato in un collegio, dove provò una intensissima sensazione di prigionia e di impotenza: desiderava con tutto se stesso energia, spostamento, libertà e poteri sovrumani. I genitori lo vedevano come un figlio pazzo, dalle follie e dai comportamenti impropri: il padre e sopratutto la madre lo amavano con un amore senza ambivalenze e condizioni; sembrava che non ci fosse limite alla capacità di comprensione, all’apertura e alla generosità del figlio. Entrambi i genitori componevano storie cliniche; e gli comunicarono l’impulso e il gusto di scriverle.
Da ragazzo, Oliver Sacks vinse un premio letterario di cinquanta sterline, e subito comprò per quarantaquattro sterline i dodici volumi dell’ Oxford English Dictionary : l’opera, per lui, più desiderata e desiderabile; sino alla vecchiaia, ogni tanto ne prendeva un volume dallo scaffale, e leggeva qualche voce prima di addormentarsi. Il Dictionary era il simbolo del suo amore per l’Inghilterra: sebbene abbia trascorso la maggior parte della sua vita negli Stati Uniti, tornava in patria appena possibile, e ogni volta che ci posava il piede immaginava di essere uno scrittore più profondo e più solido. In America Sacks sentì sempre se stesso come uno straniero: amico, rispettoso, attento a ciò che gli accadeva intorno; ma senza alcuna responsabilità civile come il voto, senza il dovere di servire da giurato, o la necessità di aderire alla attività politica. Come scrisse una volta, negli Stati Uniti, Sacks si sentiva come un «antropologo su Marte».
Avvertì presto le proprie inclinazioni omosessuali: quando la madre scoprì la vocazione del figlio, si indignò, e le sue parole di aspra condanna ebbero un ruolo fondamentale nel permeare la sessualità di Sacks di un profondo senso di colpa. Era timido e reticente: non era capace di conversare con disinvoltura: gli era difficile riconoscere le persone; conosceva poco gli avvenimenti correnti, politici, sociali o sessuali, per i quali nutriva uno scarso interesse. In vecchiaia, diventò sordo; e si ritirò in un angolo, sperando di essere invisibile e ignorato. Come diceva con qualche esagerazione, il suo pensiero era divagante, disordinato e approssimativo, composto di strane associazioni e divagazioni mentali. Si sentiva duplice. Cercò di rovesciare il senso di colpa e di disordine ubriacandosi: l’alcol saliva direttamente al cervelletto, saltando rapidamente oltre il resto del corpo.
Quando Sacks studiò alla facoltà di medicina di Oxford, lo affascinò la fisiologia delle sensazioni. Come facciamo a vedere il colore, la profondità e il movimento? Come facciamo a riconoscere qualsiasi cosa? Come facciamo a farci un’idea visiva del mondo? Aveva sviluppato quest’interesse fino dai primi mesi di vita, a causa delle sue emicranie visive: nel corso di un’aura emicranica, poteva perdere il senso del colore o della profondità o del movimento; e persino la capacità di riconoscere qualsiasi cosa. Davanti ai suoi occhi, ciò che vedeva era smontato e rimontato. L’atto del pensiero gli sembrava esclusivamente emotivo, libero da qualsiasi concetto.
Col passare degli anni, le sue conoscenze scientifiche diventarono quasi universali: studiò medicina, chirurgia, ortopedia, pediatria, neurologia, psichiatria, dermatologia, infettivologia, ostetricia. Sopratutto la medicina era, per lui, un’esperienza nuova: visitare i pazienti, ascoltarli, cercare di entrare nelle loro esperienze e nelle loro situazioni (o almeno immaginarle), sentirsi preoccupato per loro, assumersi la responsabilità dei loro casi: tutto questo, per lui, era ignoto. Non si accontentò dei limiti impostigli dalla condizione umana: studiava gli invertebrati, i lombrichi, le creature marine. Aveva un grande desiderio di sapere qualcosa di più sui sistemi nervosi e i comportamenti primitivi. Soprattutto nella vasta gamma degli invertebrati, scorgeva all’opera l’inventiva e la genialità creatrice della natura.
Nel 1960 Sacks fece il grande balzo. Arrivò a San Francisco, per studiare sotto la direzione di due neurochirurghi, pionieri nell’arte della chirurgia stereotassica, una tecnica che consente di inserire un ago direttamente in aree circoscritte del cervello, altrimenti inaccessibili. Era nel Nuovo Mondo: una società libera e senza classi, dove i professori universitari discorrevano con i camionisti. Entro certi limiti, poteva fare ciò che voleva: la collaborazione tra i due neurochirurghi, che avevano menti e culture diversissime, lo affascinò. Ascoltò una conferenza di Aldous Huxley, dominata da uno spirito, un calore, una memoria e un’eloquenza che gli parvero impareggiabili.
Quando era in Inghilterra aveva già cominciato a correre in motocicletta: di prima mattina si svegliava e si sentiva intensamente vivo, con l’aria sulla faccia e il vento sul corpo. Ora, giunto in America, comprese che quella del motociclista era la sua condizione mentale privilegiata. Acquistò una nuova motocicletta, una R60, il più affidabile di tutti i modelli Bmw; e in due mesi fece un viaggio di tredicimila chilometri, riempiendo diversi taccuini di appunti. Le strade erano meravigliosamente sgombre: viaggiava per ore senza vedere nessuno. Il motore silenzioso della moto, quell’apparente procedere senza sforzo, conferiva al movimento una qualità onirica. Il pilota e il veicolo diventavano un’unità indivisibile. Sacks guidava per tutta la notte, abbassato sul serbatoio: quando stava disteso, riusciva a fare più di centosessanta chilometri all’ora. Illuminata dal faro o dalla luna piena, la strada d’argento era risucchiata sotto la moto. Gli sembrava di stare scrivendo una linea sulle superfici del pianeta: oppure di essere immobile sul terreno, mentre il pianeta ruotava silenziosamente sotto le ruote. Ogni fine settimana, percorreva almeno millecinquecento chilometri: ma la mattina del lunedì si presentava al reparto di neurologia con un’aria fresca e riposata, come se avesse dormito per due giorni.
Negli stessi anni Sacks coltivò un’esperienza opposta: la vita dominata dalle droghe; viaggi segreti, mai condivisi, mai menzionati a nessuno. Diventò preda delle anfetamine: tutto era subordinato alla stimolazione dei centri cerebrali del piacere. Quando era pieno di anfetamine, si sentiva ossessionato e inerme: continuava a prenderne dosi sempre più alte, spingendo la frequenza cardiaca e la pressione verso livelli quasi letali. Non ne aveva mai abbastanza. L’estasi indotta dalle anfetamine era autosufficiente: non aveva bisogno di nulla e di nessuno per completare il proprio piacere; l’estasi era completa, anche se del tutto vuota. Ogni altro fine, obiettivo, interesse e desiderio scomparivano in questa vacuità assoluta. Quando i colleghi gli domandavano cosa avesse fatto nei giorni del fine settimana, rispondeva: «Sono stato via».
Diventò un consumatore di droga avventato, disposto a provare quasi di tutto, precipitando in stati simili alla schizofrenia, che a volte si protraevano per mesi. Le anfetamine producevano un enorme slancio afrodisiaco, e sviluppavano specialmente il senso dell’olfatto. Nel novembre 1965 prendeva ogni giorno enormi dosi di anfetamine e, ogni notte, incapace come era di dormire, enormi dosi di cloralio idrato, un ipnotico. Ebbe allucinazioni e deliri stranissimi: fu assalito dal delirium tremens . Mangiava pochissimo: perse trentacinque chili in tre mesi, e tollerava a mala pena la vista della sua faccia emaciata nello specchio. Dormiva tre ore per notte. Visse per mesi col rischio di cadere nell’abisso assoluto, e fu salvato dal lavoro clinico e dalle cure di un analista, senza le quali non sarebbe sopravvissuto.
Nell’autunno del 1966 Sacks cominciò a visitare i pazienti del Bath Abraham College: tra i cinquecento ricoverati, un’ottantina erano i sopravvissuti delle epidemie di encefalite letargica, che era dilagata in tutto il mondo al principio degli anni Venti. Molti di essi erano congelati in uno stato parkinsoniano profondo: alcuni pietrificati, non incoscienti, ma con la coscienza sospesa fino al momento in cui la malattia li aveva assaliti; dietro all’aspetto bloccato vi erano spesso menti e personalità intatte, che in talune occasioni potevano venir liberate per pochissimo tempo, ballare o cantare. Sacks passò un anno e mezzo a osservare i pazienti e a prendere appunti, talvolta registrandoli e filmandoli. Si chiese se la L-dopa (un precursore della dopamina) potesse soccorrere quelle figure gelate; e nel giro di qualche settimana essa produsse un effetto spettacolare. Molti pazienti tornarono in modo dirompente alla vita, alla mobilità e alla conoscenza: altri reagirono al farmaco in modo strano e complicato, come nella sindrome di de la Tourette.
Cominciò a scrivere il suo libro più noto, Risvegli : il modello era il capolavoro di un neuropsicologo russo, A.R. Lurija, una dettagliata e profondissima descrizione di un caso clinico, che combinava analisi scientifica e narrazione. Anche Sacks voleva fondere l’obiettività dello scienziato con l’intensa sensazione di un contatto umano: trovare la vicinanza con i pazienti e l’autentica meraviglia nata da questo contatto. Non avrebbe mai potuto scrivere il suo libro senza l’incoraggiamento e l’autorizzazione degli stessi pazienti, che avevano la sensazione di essere stati esclusi dal mondo, messi da parte, dimenticati; essi volevano che qualche medico raccontasse la loro storia, con solidarietà, empatia e compassione. Sacks sapeva di essere innamorato di loro: quel tipo di amore, di affinità che si trasforma in rivelazione e fa vedere la realtà con assoluta chiarezza.
Quando Harold Pinter portò sulla scena Risvegli , Sacks passò molto tempo sul set. Mostrò agli attori come sedevano i pazienti parkinsoniani, immobili con il volto inespressivo, senza alcun lampo negli occhi: la testa rovesciata all’indietro, o girata da un lato; la bocca spesso aperta, mentre un filo di saliva scendeva dalle labbra. Mostrò agli attori come essi stavano in piedi o si sforzavano di farlo: come camminavano, spesso curvi, a volte accelerando il passo: come si bloccavano, si congelavano, senza essere più in grado di muoversi; come giocavano a carte, con le carte disperatamente strette fra le mani, finché qualcuno pronunciava una parola, e tutto, all’improvviso, si scioglieva in movimento.
L’ultima parte di In movimento è bellissima e tragica: Sacks ambisce naturalmente alla condizione tragica, che si nasconde dietro l’apparenza mobile e variegata della sua prosa. Gli venne diagnosticata una commozione cerebrale: era incapace di distinguere i colori e le lettere, che gli apparivano in caratteri greci. Ogni cosa si presentava come se la stesse guardando su uno schermo televisivo in bianco e nero. Nel giro di qualche giorno, riuscì nuovamente a distinguere le lettere: il suo sguardo si fece acuto come quello di un’aquila; ma non riusciva assolutamente a scorgere i colori. Dopo una vita intera in cui aveva visto il mondo godendo di un senso ricco e magnifico della profondità colorata, ora Sacks trovava la realtà così piatta e confusa che gli sembrava di aver perso il senso stesso della profondità e della distanza.
Nel dicembre del 2005, un melanoma lo assalì all’occhio destro: con una fulminea incandescenza su un lato, e poi una cecità parziale. Il tumore fu irradiato e attaccato a più riprese con il laser: dapprima la vista dell’occhio destro fluttuò quasi ogni giorno, passando dalla quasi cecità alla quasi normalità; e la sua mente lo scagliava dal terrore al sollievo e dal sollievo al terrore. Sarebbe stato difficile, per Sacks, sopportare questa aggressione, se non avesse trovato interessantissimi alcuni fenomeni visivi che si verificarono nel suo occhio: disturbi, distorsioni, diffusione dei colori, allucinazioni. Le sue sensazioni costituivano un fertile terreno di indagine e gli sembrava di scoprire un intero mondo di fenomeni.
Cominciò a scrivere un saggio sul Dolore: un tema su cui non aveva riflettuto abbastanza. Una parte di questi dolori lo schiacciava, riconducendolo a una sorta di poltiglia tremante, quasi incapace di pensare: sotto l’aggressione la forza dell’identità e della personalità scompariva. Gli diventò impossibile leggere, pensare e scrivere; e per la prima volta nella sua vita ebbe la tentazione di uccidersi.
Mentre stava finendo il suo ultimo, bellissimo libro, Oliver Sacks allargò la sua visione del mondo. Pensava al cervello: gli sembrò che fosse «un telaio magico, su cui milioni di spore lampeggianti fanno e disfano un disegno: disegno sempre significativo anche se non permanente». Oppure pensava al tempo. Si chiedeva se l’apparente continuità del tempo e del movimento che ci viene offerta dai nostri occhi non fosse un’illusione. Forse la nostra esperienza visiva consiste in una serie di istanti senza tempo, che vengono saldati l’uno all’altro da qualche superiore meccanismo cerebrale.