Corriere 20.12.15
L’intervento mancato in Siria e la riluttanza di Obama
Contabilità di guerra Il presidente americano ha spiegato che il dispiegamento di truppe di terra costerebbe all’esercito Usa almeno cento morti al mese e una spesa di almeno dieci miliardi di dollari. Un prezzo che viene giudicato inaccettabile
di Massimo Gaggi
L’ Obama che compare in pubblico per rassicurare l’America ancora scossa dalla strage di San Bernardino dice che la battaglia con l’Isis alla fine verrà vinta, ma sarà una lunga, dura guerra di frizione, anche perché quell’avversario — ramificato, abile nel reclutamento e nella comunicazione — è più insidioso di Al Qaeda. L’Obama che parla dietro le quinte in un briefing non ufficiale spiega che, secondo l’analisi del Pentagono, un intervento in Siria col dispiegamento di forze di terra costerebbe all’esercito Usa almeno 100 morti al mese, più migliaia di vittime tra i siriani. E comporterebbe una spesa di almeno dieci miliardi di dollari. Costi umani ed economici evidentemente giudicati inaccettabili.
La Casa Bianca non ha confermato ufficialmente la contabilità di guerra menzionata dal presidente, ma è anche da questi numeri che bisogna partire per capire la riluttanza di Barack Obama a infilarsi in un nuovo conflitto. Nella retorica infuocata della campagna elettorale, il leader democratico viene trattato dai candidati repubblicani alternativamente come un vigliacco o un incapace privo di una strategia. Con qualche variazione di Ted Cruz che a volte gli dà del traditore. Nel suo ultimo incontro con la stampa prima delle vacanze natalizie alle Hawaii, il presidente non ha replicato alle accuse limitandosi a far notare che anche Putin, dipinto per mesi come il leader volitivo capace di cambiare la situazione in Medio Oriente col suo intervento armato, ha dovuto prendere atto che in Siria una soluzione militare non c’è: «Dopo due mesi continui di ”raid”, la Russia non è riuscita nemmeno a spostare le lancette di quel conflitto».
Nessuna scorciatoia, insomma, rispetto a una strategia basata sulla ricerca di un accordo politico di riconciliazione nazionale tra le fazioni, mentre deve continuare il martellamento contro il terrorismo dell’Isis: dal cielo come ha fatto finora la coalizione guidata dagli Usa, mentre sul terreno spetta alle truppe arabe dei Paesi sunniti affrontare e sconfiggere lo Stato islamico.
Certo, davanti all’America ansiosa e spaventata che cerca risposte forti, ma anche davanti all’Europa, abituata a vivere sotto l’ombrello di Washington, che vorrebbe più «leadership» Usa, i ragionamenti freddamente razionali di Obama fanno poca presa. Eppure anche i numeri hanno rilevanza politica. Basta chiedersi chi combatterà il prossimo conflitto, per rendersene conto.
Siamo abituati a considerare gli Stati Uniti il gendarme del mondo e il suo esercito una macchina gigantesca sempre pronta alla mobilitazione in ogni parte del mondo. Non è più così: in America la retorica del patriottismo è sempre forte, ma se dopo la sconfitta e le carneficine del Vietnam i giovani americani sono tornati ad arruolarsi per difendere il Paese, soprattutto dopo gli attentati terroristici dell’11 settembre 2001, i 5.400 morti e le decine di migliaia di feriti e invalidi lasciati dalle guerre in Iraq e Afghanistan hanno reso difficilissimo, per il Pentagono, anche solo trovare le reclute necessarie per un esercito i cui effettivi stanno progressivamente calando da 566 mila a 440 mila soldati.
Nonostante uno stipendio generoso e i molti «benefit» offerti (compresi 78 mila dollari per rette nei «college»), gli obiettivi del reclutamento 2015 sono stati raggiunti molto faticosamente, con qualche compromesso sui requisiti dei candidati, svuotando la riserva dell’esercito e saccheggiando in anticipo le classi di età che dovevano entrare nel mirino del Pentagono solo l’anno prossimo. Dei 21 milioni di giovani americani tra i 17 e i 21 anni di età che sono nel «radar» delle forze armate, quasi dieci sono fuori gioco perché non hanno nemmeno completato la scuola dell’obbligo o perché non hanno capacità elementari di calcolo e di ragionamento, mentre altri 7 vengono eliminati perché obesi, per la loro storia criminale o perché hanno tatuaggi troppo visibili sul volto. Tra i 4 milioni rimanenti, molti preferiscono l’università o un’offerta di lavoro. Il richiamo della Patria da difendere c’è ancora, ma le immagini dei veterani mutilati in Afghanistan e Iraq, ora largamente in mano ai talebani e a gruppi terroristi, funzionano da deterrente. Cosa succederebbe se le truppe Usa fossero mandate allo sbaraglio in Siria, e massacrate, in un conflitto feroce di tutti contro tutti?