mercoledì 2 dicembre 2015

Corriere 2.12.15
Aids, il Papa apre sul condom: «È uno dei modi per bloccarlo»
Francesco risponde a una domanda durante volo di ritorno dall’Africa: «Ma non è questo il vero problema, le grandi ferite dell’Africa sono fame e sfruttamento»
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Corriere 2.12.15
Vatileaks 2, la rete di ricatti di Chaouqui e del marito, accusati di associazione a delinquere
Le intrusioni nei pc delle vittime a caccia di documenti. Anche il banchiere Ettore Gotti Tedeschi si rivolse a loro
di Fiorenza Sarzanini
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http://roma.corriere.it/notizie/cronaca/15_dicembre_01/inchiesta-vatileaks-rete-ricatti-chaouqui-marito-defb5a2c-9874-11e5-b53f-3b91fd579b33.shtml

Repubblica 2.12.15
Vatileaks: lo scandalo del processo ai giornalisti in VaticanoVatileaks: lo scandalo del processo ai giornalisti in Vaticano
Con Fittipaldi e Nuzzi finisce alla sbarra la libertà di informazione
di Francesco Merlo
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http://www.repubblica.it/vaticano/2015/12/02/news/merlo_vatileaks-128606067/?ref=HRER2-1

Repubblica 2.12.15
“Ladri nel mio studio” E l’avvocato di Balda rinunciò all’incarico
È solo l’ultimo caso Ma l’intera vicenda di Vatileaks è costellata di furti, sparizioni e sospetti di spionaggio
Tre violazioni avvenute in Vaticano, altre due negli uffici dell’editore del libro del giornalista Nuzzi
di Marco Ansaldo

CITTÀ DEL VATICANO Sei furti e una denuncia per la presenza di microspie nell’ufficio di monsignor Vallejo Balda. Fanno sette eventi illegali. Tutti sul caso delle carte segrete uscite dal Vaticano. Nel suo genere, un record.
Cominciamo con l’ultimo in ordine di tempo, di cui mai finora si era saputo, e che ha bisogno di una breve ricostruzione perché collegato al processo in corso ai cinque imputati. Spiega a
Repubblica Antonia Zaccaria, legale di fiducia di monsignor Lucio Angel Vallejo Balda accusato di diffusione delle carte riservate, non ammessa al dibattimento perché non iscritta nell’albo degli avvocati della Santa Sede: «In precedenza, durante gli interrogatori, ero stata ammessa dai Promotori di giustizia, i quali mi avevano autorizzata, suggerendomi di nominare congiuntamente un avvocato del Foro Vaticano. Il 13 novembre con il mio assistito indico una mia collega. Incredibilmente, questa nomina verrà smarrita. Il giorno 17 novembre vado al Tribunale per depositare un’istanza per farmi autorizzare a stare in Giudizio, comunicando che è stata nominata la collega».
Quello stesso pomeriggio avviene il confronto tra monsignor Vallejo Balda e Francesca Chaouqui, la commissaria per la riforma sulle finanze vaticane, anche lei imputata nello stesso caso. «Non riuscendo a reperire la collega — continua l’avvocato Zaccaria — a quel punto viene nominata Rita Claudia Baffioni in qualità di difensore d’ufficio. Il 18 novembre scopro della “sparizione della nomina”, e che non ero più ammessa neanche agli interrogatori. Il giorno successivo aiuto la collega che avevo indicato in precedenza a fare gli adempimenti. Sabato 21 lei mi chiama per dirmi che c’è il decreto di rinvio a giudizio, e che gli atti sono secretati. La domenica ricevo un sms con la notizia che la collega ha subito un’effrazione nel suo studio, e che ha paura, non si sente sicura, e preferisce rinunciare al mandato». Il furto nello studio riguarda alcuni fascicoli. Ma, opportunamente, il dossier con le carte sulla difesa di monsignor Vallejo Balda era stato prelevato dall’avvocatessa, che lo aveva tenuto con sé. Lo stesso pomeriggio la legale consegna il fascicolo di persona alla Gendarmeria. Denuncia l’effrazione ai Carabinieri e il suo studio viene sigillato per due giorni.
In precedenza c’erano stati altri furti su Vatileaks 2. Uno nell’appartamento- ufficio di Vallejo Balda. E poi il monsignore denuncia la presenza di microspie. Quindi, nel marzo 2014, avviene l’effrazione nella cassaforte blindata della Prefettura degli Affari economici, dove Balda e la Chaouqui lavoravano. Due furti sono poi denunciati a settembre e ottobre 2015 negli uffici di Milano di Chiarelettere, la casa editrice dei libri del giornalista Gianluigi Nuzzi, il quale stava per dare alle stampe anche il suo nuovo volume contenente le carte riservate.
Un furto, infine, si sviluppa invece per via elettronica, quando alla fine di ottobre 2015 viene prelevato l’hard disk di monsignor Libero Milone, Revisore generale della Santa Sede, nominato a giugno da Papa Francesco. Il caso Vatileaks 2 continua a dare sorprese.

Corriere 2.12.15
Il vescovo in tv: «Sì a passi indietro su tante tradizioni»
Poi si corregge
di R. B.

Il paradosso di Padova è che a frenare sui simboli del Natale non sarebbe stato un preside laico ma addirittura il vescovo della città, Claudio Cipolla. Lunedì, sollecitato da un’emittente televisiva locale, aveva infatti osservato: «Se fosse necessario per mantenerci nella tranquillità e nelle relazioni fraterne tra di noi non avrei paura a fare una marcia indietro su tante nostre tradizioni».
Parole che non potevano non suscitare reazioni. E infatti ieri il presidente della Regione Veneto, il leghista Luca Zaia, ha scritto una lettera aperta. «La difesa del presepe sta diventando un argine anche identitario, non soltanto per chi si professa cristiano e cattolico, ma anche per chi è laico e magari osserva con distacco questa discussione. In realtà, qui ne va dei concetti di democrazia e di libertà: libertà di pensiero e libertà di professare una religione».
Il governatore legge le parole del vescovo di Padova «non come un gesto rivolto a favore della civile convivenza, ma come una affermazione che riesce a far apparire i cristiani che difendono il presepe, e il suo valore religioso e identitario, come dei veri e propri fondamentalisti. Probabilmente si tratta di un grande errore, lo stesso che si commette nel dividere l’Islam in fondamentalisti e moderati».
Tocca allora allo stesso monsignor Cipolla intervenire: «Non ho mai detto “rinunciamo al presepe” e non ho fatto riferimento ad alcun luogo specifico». E chiarisce: «Fare un passo indietro non significa creare il vuoto o assecondare intransigenze laiciste, ma trovare nelle tradizioni, che ci appartengono e alimentano la nostra fede, germi di dialogo. Il Natale, in questo senso, è un esempio straordinario, un’occasione di incontro con i musulmani, che riconoscono in Gesù un profeta e venerano Maria».
La difesa dei simboli cattolici accomuna i partiti. Per Giovanni Piccoli (Fi), «non dobbiamo rinunciare alle nostre tradizioni». Laura Puppato (Pd) invece sottolinea che «il presepe è portatore di valori che vanno al di là del messaggio religioso».
Una raccolta di 21 presepi, di varie epoche e provenienti da tutta Italia, è invece in questi giorni ospitata nel Palazzo del Quirinale. Una mostra, organizzata da tempo, per «far conoscere e valorizzare le tradizioni culturali, storiche e artistiche della varie Regioni».

Corriere 2.12.15
Polemiche e ipocrisie
Natale e la debolezza dell’Europa che a quei valori non crede più
Rinunciare alle nostre prospettive non porterà pace, ma una guerra più ampia
Così si conferma nei musulmani il disprezzo per chi nasconde le proprie tradizioni
Rispetto per l’Islam? È falso. Ma quel gesto racconta ciò che abbiamo perduto
di Vittorio Messori

Forse scandalizzerò qualcuno confessando che non riesce, a me, di scandalizzarmi per le gesta politicamente corrette di un preside di provincia, di un signore commoventemente ligio al conformismo egemone. Quello dominato da una sorta di raptus maniacale: la vigilanza ossessiva per «non offendere» alcuno.
Per stare al nostro preside: nonostante le sue precisazioni, resta il fatto che far finta di niente a Natale, solennizzando invece a gennaio una neutrale «Festa dell’Inverno», gli sembra un contributo al rispetto per le altre culture e alla integrazione degli immigrati musulmani. C’è da annoiarsi: capisco la sorpresa dello sprovveduto professore per l’eco mediatica suscitata da una sortita di cui abbiamo visto e ogni giorno vediamo qualche esempio. Per un esempio tra tanti: quante maestre, di elementari se non di asilo, hanno distillato simili propositi edificanti in assemblee grondanti buonismo e li hanno resi pubblici? È ormai cosa da «breve», per dirla in gergo giornalistico, roba da pagine di cronaca dei quotidiani locali.
È tedioso dover spiegare per l’ennesima volta che l’effetto di simili iniziative non consiste nella gratitudine degli islamici, con aumento della stima per noi, tanto generosi. L’effetto sta, al contrario, nella conferma del loro disprezzo per gente pronta a nascondere le proprie tradizioni, anche religiose, per una piaggeria gratuita, per giunta non richiesta.
Chi mai tra noi — si dicono — chi mai rinuncerebbe al rispetto del digiuno anche per un unico giorno di Ramadan? E questi, invece, si affannano a nascondere pure la ricorrenza della nascita del loro Messia, che per giunta scambiano per il Figlio di Dio, per non dar fastidio a noi e ai nostri figli a scuola o all’asilo? Ma allora ha ragione l’imam quando, in moschea, ci dice che questa Europa che fu cristiana ormai è atea ed è pronta a passare la mano all’umma, la comunità di noi credenti veri.
Tengano innanzitutto presente, i presidi di provincia e, in genere, i portatori di generosi sentimenti, che ogni musulmano — quale che sia la sua miseria economica o la sua posizione sociale, anche infima — guarda il cristiano dall’alto in basso, certo della sua superiorità in ciò che conta: la conoscenza e l’adorazione dell’unico, vero Creatore dell’universo. Maometto muore esattamente sei secoli dopo la morte di Gesù. Questi è degno di ogni onore, il suo nome sia in benedizione, ma solo perché, come penultimo profeta, è venuto ad annunciarci l’arrivo dell’ultimo, definitivo profeta, colui al quale l’arcangelo di Allah ha dettato, parola per parola, la Rivelazione piena. Nella discendenza di Abramo vi è una scala ascendente: la Torah degli ebrei, il Vangelo dei cristiani e — infine — il Corano degli islamici. I quali, dunque, stanno al vertice e guardano con compassione noi, credenti in Cristo, noi attardati, noi fermi a un anacronistico gradino inferiore.
Anche per questo lo scambiare per rispetto il nascondimento della nostra identità religiosa, è visto come una conferma della vergogna che proviamo nell’essere fermi a un Dio dimezzato, senza conoscere Allah. Per chi, come per questi popoli, ciò che innanzitutto conta è la dimensione religiosa, il vero sottosviluppo è il nostro, la nostra ricchezza economica non vale nulla a confronto della loro ricchezza di possessori della verità definitiva. Nessun islamico consapevole accetterà un dialogo alla pari con i cristiani, per lui inutile (che cosa ha ancora da sapere, nel Corano essendoci tutto?) ed anche umiliante, essendo quelli fermi a Gesù, dunque a un livello ben inferiore per coloro che ascoltano la testimonianza di Muhammad.
C’è, ripeto, un sospetto di noia nel dovere ricordare — magari a persone di cultura come gli insegnanti — realtà elementari che dovrebbero essere ben note. In ogni caso, sia chiaro: per quella che Vico chiamava «l’eterogenesi dei fini» (le buone intenzioni che, messe in pratica, producono effetti rovesciati rispetto alle attese) il rinunciare alle nostre prospettive e alle nostre tradizioni non porta alla pace. Può portare, invece, alla guerra: non solo a quella del risorto Califfato, ma anche a quella di altre parti dello sconfinato mondo islamico. Mondo sempre più convinto che — nella nostra incuranza religiosa — vi sia la conferma che siamo pronti alla resa, maturi per l’islamizzazione, con le buone o con le cattive. E, in questo, va pur detto, non avrebbero del tutto torto.
In effetti, quale Natale come nascita di Cristo può difendere un Occidente — europeo e nordamericano — che ha da tempo provveduto a cancellarne il nome? Da anni è scorretto, inaccettabile, un Merry Christmas, sostituito dunque da un Season’s greetings. E che cosa ha a che fare il bambino di Betlemme con il vecchio, obeso Babbo Natale della Coca Cola? Che c’entra colui che ripeté «beati i poveri» con il trionfo commerciale della fine di dicembre? Che dire (i siti su Internet ne sono pieni) del malizioso abbigliamento intimo proposto alle donne per un sesso tutto speciale per festeggiare la notte in cui, dicevano una volta, il Messia venne alla luce?
In fondo, siamo giusti: perché prendersela troppo con il rappresentante di una scuola dove insegnanti e allievi — alla pari dei loro compagni dell’intero Occidente — in gran parte hanno gettato alle spalle il senso e il messaggio di questa Nascita? In nome di quali «valori» dovremmo schierarci a difesa, noi, cittadini di una Europa che ha rifiutato di riconoscere che le sue radici stanno — non solo, certo, ma in gran parte — in quei venti secoli di storia trascorsi dal parto di Maria nel villaggio di Giudea?
C’è, in vicende come questa, molto déjà vu . Ma non manca di certo pure l’ipocrisia.

Repubblica 12.2.15
Dal monsignore ai 15 giovani “officiali”: la squadra di Bergoglio per gestire l’Anno Santo
di Paolo Rodari

LA porta Santa aperta a Bangui, cuore dell’Africa, dice già tutto. Il Giubileo di Francesco ha poco dell’anno santo convocato nel 2000 da Giovanni Paolo II. Allora vi furono 5 anni di preparazione, una macchina organizzativa poderosa, con i movimenti ecclesiali a dare pieno supporto a 12 mesi di grandi eventi e adunate oceaniche. Oggi i mesi per organizzare sono stati appena sette. A gestire il tutto solo il dicastero per la Nuova evangelizzazione guidato da monsignor Rino Fisichella. Insieme a lui, 15 “officiali”, in maggioranza giovanissimi.
«Non siamo che una piccola squadra che lavora per portare avanti un evento “delocalizzato”, se così si può dire, in tutte le diocesi del mondo — spiega Fisichella — . La celebrazione, infatti, quale segno dell’unità e della carità in ogni Chiesa particolare, non è anzitutto a Roma».
È, in scia al pontificato delle periferie tanto care a Bergoglio e a una Chiesa che sia davvero sinodale, «ovunque la comunità vive». L’ufficio di Fisichella, direttamente con affaccio su via della Conciliazione, è semplice. Una scrivania di legno nel mezzo, cosparsa di tante carte. Una porta a lato comunica con la stanza del segretario. Un’altra dà su un corridoio dove vi sono le stanze dei suoi collaboratori. Tra documenti e libri, anche diverse stampe. Alcune riproducono i mosaici di padre Marco Rupnik, artista gesuita, sloveno, direttore dell’Atelier spirituale del Centro Aletti. Rupnik ha disegnato il logo del Giubileo: una piccola summa teologica del tema della misericordia. Mostra, infatti, Gesù che si carica sulle spalle Adamo. «Dio guarda l’uomo in modo tale che l’uomo lo possa vedere e insieme comprendere — dice Rupnik — . Il pontificato di Francesco in questo senso è profezia: unisce i due mondi, divino e umano, e il popolo percepisce bene tutto ciò».
Tommaso, uno dei quindici “officiali” che lavora alla Nuova evangelizzazione, controlla le richieste che giungono attraverso il sito
im. va. È lui a gestire l’arrivo a Roma dei missionari della misericordia il mercoledì delle ceneri, il giorno nel quale Francesco li invierà ufficialmente nelle rispettive diocesi.
Loro, ha detto recentemente il cardinale indiano Oswald Gracias, sono come «speciali agenti di riconciliazione che possono curare le ferite di persone che sono all’interno e al di fuori della comunità cristiana». A loro il Papa conferirà l’autorità di perdonare anche i peccati riservati alla Sede Apostolica. Tommaso raccoglie le candidature attraverso il modulo Diventa Missionario. Per essere accettati occorre una lettera di presentazione da parte del proprio vescovo dove si attesta l’idoneità del sacerdote a svolgere il ministero.
Non c’è Giubileo senza porta santa. La porta segna la separazione tra l’interno e l’esterno, tra il peccato e l’ordine della grazia. Chi vi passa si purifica. In molti chiedono di passare attraverso la porta della basilcia vaticana. Impegnativo è gestire l’enorme flusso. Occorre registrarsi sul sito. Fino a oggi l’anno già fatto in centomila, ma nelle prossime settimane il numero potrebbe salire di molto. È stato ideato un percorso pedonale riservato che parte da Castel Sant’Angelo. All’ora prestabilita ci si deve presentare presso il castello e di lì, camminando lungo una strada transennata che percorre via della Conciliazione e piazza Pio XII, si accede alla basilica. Volendo si possono scegliere pellegrinaggi alternativi, quello delle sette chiese di Roma o le vie storiche, la Francigena, la Romea e altre.
Il volontariato nella Chiesa significa vivere a immagine e somiglianza di un Dio: entrare nella storia con libertà, gratuità e umiltà. Non c’è evento ecclesiale che non sia segnato dal volontariato. Così il Giubileo: ogni percorso, ogni luogo giubilare, è presidiato da volontari. Cento ragazzi saranno impegnati nei giorni normali. Fino a mille, invece, in occasione dei grandi eventi. Per tutto l’Anno Santo il Pontificio consiglio offrirà anche un centro stampa e un centro accoglienza.
Fisichella vuole che «chiunque si senta accolto ». Per questo sono state predisposte pedane per i disabili: «Nessuno deve sentirsi rifiutato o escluso».
È con questo spirito che lavora anche il Centro televisivo vaticano guidato da monsignor Dario Edoardo Viganò. Fresco autore di Fedeltà e cambiamento (Rai Eri), segue tutti i momenti salienti di un pontificato che attraverso «una vera e propria comunicazione del contatto, della spontaneità, vuole arrivare a tutti». Il giorno dell’apertura del Giubileo la tv del Papa cercherà di raggiungere con nuove tecnologie ogni angolo del globo. La giornata dell’8 dicembre, infatti, sarà trasmessa per la prima volta in mondo visione in Ultra HD, con diciannove telecamere collegate a quattro satelliti.
I poveri e gli ultimi sono da sempre nel cuore di Papa Bergoglio. Per loro il Giubileo sarà un anno particolare. A Roma ci sarà la “porta santa della carità”. Ad aprirla, lo stesso Francesco il 18 dicembre all’Ostello della Caritas di Roma. Accanto alla stazione Termini, da 25 anni, è un approdo per poveri, immigrati. «In questi anni — spiegano alla Caritas — l’Ostello è stato il luogo di incontro più prossimo con la povertà e l’emarginazione, in cui si è socializzato con i fratelli emarginati. Una relazione fatta di piccole cose: doccia, cambio di biancheria, conversare seduti a tavola, che diventa la concretizzazione dell’amore evangelico».
A conti fatti, finora, gli unici “esclusi” sono i venditori ambulanti che stazionano in via della Conciliazione. Per dodici mesi dovranno sgomberare. Per loro, per motivi di sicurezza, non c’è posto nelle zone intorno al Vaticano.

Repubblica 2.12.15
Misericordia un appello rivolto a tutti
di Vito Mancuso

Il Papa e l’Occidente ferito “avere cura dei poveri” non è esclusiva cristiana
LE parole chiave sono due: giubileo e misericordia. La domanda invece è una sola: ci sono sensati motivi oggi perché una mente razionale faccia sua la prospettiva di vivere all’insegna del giubilo e della misericordia?
Dicendo “oggi” non mi riferisco solo al clima di paura dentro cui siamo immersi ogni giorno di più; mi riferisco anche e soprattutto alla filosofia di vita che pervade la mente occidentale da qualche secolo a questa parte rendendola incapace di generare pace perché concepisce l’esistenza come “guerra di tutti contro tutti” (Hobbes), “lotta per la sopravvivenza” (Darwin), “volontà di potenza” (Nietzsche). Oggi si è perlopiù convinti che pensare in modo rigoroso conduca necessariamente al conflitto perché già la natura nella sua intima essenza è considerata come conflitto, mentre ogni prospettiva che invita all’armonia viene sentita come evasione e incapacità di cogliere la realtà. Dalla destra liberista alla sinistra neodarwinista il pensiero occidentale oggi si muove all’insegna del detto di Eraclito “il conflitto è padre di tutte le cose e di tutte è re” (fr. 14). Si dimentica però quanto il grande filosofo aggiungeva, cioè che “da elementi che discordano si ha la più bella armonia” (fr. 24) e che “armonia invisibile è migliore della visibile” (fr. 27).
Il Giubileo straordinario della misericordia indetto da Francesco è una celebrazione di quell’armonia invisibile nominata da Eraclito e a cui tutti gli esseri umani, se aprono il cuore e la mente, possono partecipare. Nella bolla di indizione il Papa scrive che la misericordia “è la legge fondamentale che abita nel cuore di ogni persona quando guarda con occhi sinceri il fratello che incontra nel cammino della vita” (Misericordiae vultus 2). Sono parole di intenso ottimismo secondo cui ogni essere umano, se prende sul serio la luce che pervade lo sguardo dell’altro, si apre alla dinamica della relazione interpersonale e può superare il conflitto che abita la superficie dell’essere.
Francesco fonda l’appello alla misericordia in prospettiva cristiana dicendo che “Gesù Cristo è il volto della misericordia del Padre”. Ma non si tratta di un’esclusiva cristiana. La Bibbia ebraica istituisce il giubileo nel Levitico e celebra la misericordia divina nei Salmi. L’islam apre ognuna delle 114 sure del Corano “nel nome di Dio clemente e misericordioso”. Il buddhismo insegna la misericordia mediante la dottrina delle quattro dimore divine: gentilezza amorevole verso tutti, compassione infinita verso i sofferenti, gioia compartecipe, equanimità. Tutte le religioni genuinamente interpretate hanno al centro l’ideale di pace e misericordia.
Si tratta di una prospettiva cui può giungere anche la pura ragione. Guardare gli altri con occhi sinceri significa infatti praticare l’imperativo categorico kantiano: “Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo” ( Fondazione della metafisica dei costumi, BA 67). La misericordia solidale non è buonismo dolciastro, è applicazione della legge etica fondamentale dell’umanità. La quale a sua volta è riproduzione dell’armonia relazionale che informa l’energia primordiale caotica portandola a comporre sistemi sempre più complessi sotto forma di atomi, molecole, cellule, organi, apparati, organismi, fino allo splendore della mente che pensa e del cuore che ama.
Papa Francesco è una mente che pensa e un cuore che ama, e per questo le sue parole e i suoi gesti giungono come un balsamo sulle piaghe della sfiduciata mente occidentale. Egli invita a prendersi cura dei poveri: facendo così forse scopriremo che la vera povertà non riguarda le tasche, riguarda gli occhi e la loro incapacità di guardare gli altri in modo sincero.

Repubblica 2,12.15
Sette secoli di indulgenze simboli e pellegrinaggi
di Agostino Paravicini Bagliani

IL giubileo della Misericordia di Francesco è iltrentesimo, compresi quelli straordinari. In media, uno ogni 25 anni, da l febbraio 1300, quando Bonifacio VIII indisse il primo giubileo cristiano, ritenendo di poter concedere l’indulgenza plenaria a coloro che avrebbero visitato entro l’anno le maggiori basiliche di Roma: San Pietro e San Paolo. Da allora, ogni giubileo viene vissuto a Roma e nella Chiesa cattolica, in contesti diversi tra loro, tra vita locale
e valori universali. Bonifacio VIII avrebbe voluto che i giubilei fossero indetti, come il suo, ogni cento anni, a ogni passaggio di secolo, ma non fu ascoltato. Già nel 1350, riprendendo forse il modello di quello ebraico, un papa di Avignone, Clemente VI, accordò un secondo giubileo a Roma. Anche Francesco segue quel ritmo, a ricordo del 50esimo anniversario della fine del concilio Vaticano II (1962-1965). Sarà una coincidenza, ma 33 anni separano il 2016 dal 1983, anno in cui Giovanni Paolo II indisse un giubileo per commemorare — 50anni dopo — quello del 1933, calcato sugli anni della vita di Cristo.
Di fatto, la stragrande maggioranza dei giubilei è stata indetta secondo un ritmo di 25 anni, con un’importante interruzione, involontaria, tra il 1825 e il 1925. In quel secolo vi fu un solo giubileo, nel 1875, peraltro così riservato e modesto da essere definito «silenzioso». Cinque anni prima, la breccia di Porta Pia aveva sferrato un colpo mortale al potere temporale dei papi che vissero autoreclusi in Vaticano per più di 50 anni, fino ai Patti Lateranensi (1929). Quando, il 24 dicembre 1874, Pio IX aprì la Porta Santa, nella basilica di San Pietro si sentì gridare «Evviva re Umberto!».
Civiltà Cattolica scrisse che «dai tempi di Bonifacio VIII in qua» non si era mai visto un giubileo svolto «tra tante calamità religiose e ansietà civili». Molti pellegrini giunsero dagli Stati Uniti, Messico, Australia: mai prima di allora, pellegrini erano venuti a Roma in treno per un anno santo.
Nel 1925 — l’Europa usciva dalla Prima Guerra mondiale — il giubileo fu percepito come rara occasione di pacificazione. Il Times di Londra scrisse (27 dicembre 1924) che se «La maggior parte di noi non appartiene alla confessione cattolica... con il Papa possiamo pregare per la pace e per la buona volontà». Enorme l’afflusso dei pellegrini (tra i 400 e i 600mila),« dall’Islanda al Capo di Buona Speranza», come ebbe a dire lo stesso pontefice .
Anche il giubileo del 1950 si tenne a ridosso di una Guerra mondiale, la seconda e fu la prima vera occasione di grande mo- bilità in Europa. Più di un milione e mezzo di italiani fecero il viaggio a Roma, quasi 600 mila dall’Europa, 60mila dalle Americhe. Assenti i pellegrini dei Paesi comunisti dell’Est europeo. La basilica e la piazza di San Pietro accolsero folle mai viste prima di allora. Papa Pacelli proclamò il dogma dell’Assunzione di Maria Vergine. De Gasperi confidò allora a Andreotti le sue incertezze su tale opportunità.
Il successo popolare fu ancora più spettacolare nel 2000, giubileo che Giovanni Paolo II rese universale anche compiendo viaggi simbolicamente importanti, soprattutto quello in Palestina e Israele. Il 22 marzo incontrò a Betlemme Yasser Arafat. Qualche giorno prima, a Roma, Woytila chiese ufficialmente perdono per le colpe della Chiesa — il processo di Galileo, la repressione degli eretici e così via. Alla fine del suo discorso, nella basilica vaticana, vi fu un silenzio profondo.
Ma a Roma il giubileo fu spesso segnato da eventi tragici. Tranne i primi due, fino al 1450 tutti gli anni santi furono colpiti dalla peste. Nel 1390, Roma contava non più di 25mila abitanti. Dopo la Pentecoste scoppiò la peste e il papa fuggì a Rieti con la Curia. Nel 1450 si intensificarono invece le processioni. Niccolò V diede ordine che l’icona della Veronica, venerata a San Pietro, fosse mostrata ogni domenica.
Fu ritenuto un miracolo che nel 1575 Roma «non sentì per divina misericordia minima infezione ». Nella sola Messina le vittime furono decine di migliaia. A dieci anni dalla fine del concilio di Trento (1545-1563), una sorta di trionfo celebrato però in un clima volutamente devozionale. Signore dell’aristocrazia «vestite di seta, et d’oro, et di gemme ornate» lavavano i piedi a umili pellegrine sconosciute.
Anche i due precedenti giubilei del Cinquecento furono celebrati a ridosso di eventi straordinari. Il 31 ottobre 1517 Lutero aveva affisso le sue celebri tesi sul portone della chiesa del castello di Wittenberg. Il giubileo del 1525 fu il primo in un’Europa cristiana divisa. La Veronica di San Pietro fu allora mostrata al pubblico per l’ultima volta. Due anni dopo, nella notte tra il 6 e il 7 maggio 1527, i Lanzichenecchi di Carlo V penetrarono nell’Urbe saccheggiando reliquie e tesori. Fu un pellegrinaggio alla rovescia. Le teste degli apostoli servirono per «gioare a palla». Secondo il cardinale Giovanni Salviati, la Veronica sarebbe stata bruciata. Il fatto è controverso, ma nel 1550 si dovette comunque ricostituire un tesoro di reliquie e oggetti liturgici, in gran parte .
I giubilei hanno anche contribuito ad abbellire Roma. Nel 1650 fu terminata in piazza Navona la fontana dei Fiumi che Innocenzo X Pamphili aveva affidato prima a Borromini poi a Bernini. Nel 1675, piazza del Popolo fu rinnovata con la costruzione di Santa Maria di Montesanto e Santa Maria dei Miracoli. Nel 1725 si pose fine alla Scalinata di Trinità dei Monti. Tracce urbane eccezionali, irripetibili, che ci ricordano però come i giubilei abbiano impresso nel corso dei secoli su Roma segni di spiritualità e di idealità, urbani e universali insieme.

Repubblica 2.12.15
Il cardinale Kasper: “Nessuno verrà escluso dalla Chiesa di Francesco”
intervista di Paolo Rodari

«Dedicare un Giubileo alla misericordia significa ricordare che il nome di Dio non è altro che questo. Non c’è fede né cristianesimo senza misericordia ». Era il 17 marzo del 2013. Il Papa, durante il suo primo Angelus, citò quello che allora era l’ultimo libro del cardinale Walter Kasper, “Misericordia” (Queriniana). Francesco, come dice oggi a “Repubblica” lo stesso cardinale presidente emerito del Pontificio Consiglio per il dialogo ecumenico, «fece capire che sarebbe stato
questo il senso più profondo del suo pontificato ».
Il Papa parlò anche di Isaia.
«Il profeta Isaia afferma che anche se i nostri peccati fossero rossi scarlatti, l’amore di Dio li renderà bianchi come la neve. È così per tutti».
Ha consegnato il suo libro a Francesco. Cosa le ha detto il Papa?
«Mi ha detto che è misericordia il nome di Dio. È l’unico criterio sul quale saremo giudicati. Non ci verrà chiesto se siamo andati tutte le domeniche a messa, questo, sì, è importante, ma il criterio del giudizio di Dio sarà la misericordia che abbiamo avuto nei confronti degli altri».
È per questo messaggio che Francesco riesce a raggiungere anche coloro che sono lontani dalla fede?
«Francesco è una figura profetica. Ha capito quale profondo messaggio di Dio dare al mondo. E, infatti, in tanti lo comprendono».
Il recente Sinodo dei vescovi ha portato la Chiesa sulla strada della misericordia, senza ancora aprire alla comunione ai divorziati. Perché?
«Il Sinodo ha fatto un passo in avanti sulla necessità di aprire le porte della Chiesa a tutti. Sulla comunione ai divorziati aspetteremo cosa dirà il Papa. Abbiamo però detto che tutti se lo desiderano devono fare parte della Chiesa. Si è ricordata la strada già aperta da Tommaso nella sua “Summa Theologica”, secondo cui senza ledere l’indissolubilità la Chiesa può piegarsi sulle singole situazioni, caso per caso, oltre il rigorismo e il lassismo».
Misericordia è parola forte in chiave ecumenica ed interreligiosa.
«Lutero si chiedeva come avere un Dio misericordioso. E molte sure del Corano si aprono con un’invocazione ad Allah il misericordioso».
I recenti fatti di Parigi dicono che non tutto l’islam condivide ciò.
«Chi ha commesso questi crimini non può nemmeno dirsi musulmano. Sono soltanto fanatici, seguaci di una propria ideologia».
Una Chiesa misericordiosa però non rinuncia a un proprio tribunale. Cosa pensa di Vatileaks?
«Penso che sia giusto condannare, se sono stati commessi reati, chi da dentro il Vaticano ha divulgato le carte. Però le carte mostrano una curia ancora da riformare. Ma molti documenti in questo senso sono vecchi: il Papa già ha risolto molto. E sul resto sono certo che andrà fino in fondo».

La Stampa 2.12.15
Senato, il porto delle nebbie: tutto resta fermo fino al 2016
Dovevano ottenere il sì anche le unioni civili: ma vince l’immobilismo
Ferme anche prescrizione e terzo settore, che il governo aveva indicato come priorità
di Francesco Maesano
qui
http://www.lastampa.it/2015/12/02/italia/politica/senato-il-porto-delle-nebbie-tutto-resta-fermo-fino-al-e0bkPZk9lCbA8tkQJlSlPL/pagina.html

La Stampa 2.12.15
Nuova fumata nera per l’elezione della Consulta
Niente accordo con la Lega: nessuno dei tre candidati raggiunge il quorum dei 571 voti Palese (CR): «Petizione per votare ad oltranza». Pitruzzella: «Ritiro la mia candidatura»
di Marco Bresolin
qui
http://www.lastampa.it/2015/12/01/italia/politica/nuova-fumata-nera-per-lelezione-della-consulta-QbSa29eMZlrE41ryIrEHFN/pagina.html

La Stampa 2.12.15
Consulta, fumata nera, e Pitruzzella si ritira
Pd e Forza Italia nei guai
Oggi nuovo voto. Il M5S accusa la Lega di “inciucio”
di Amedeo La Mattina

Tutto ritorna in alto mare. Ancora una fumata nera in Parlamento per l’elezione di tre giudici costituzionali. Oggi senatori e deputati ci proveranno di nuovo e i nomi che rimangono in piedi sono quelli di Augusto Barbera (Pd) e di Francesco Paolo Sisto (Fi) che hanno visto crescere il consenso nel segreto dell’urna. Ma adesso rischiano pure loro. E questo a causa del venir meno della terna concordata da Pd, Fi, Ap. Il terzo petalo era infatti Giovanni Pitruzzella, indicato da Area popolare, che ieri ha ritirato la sua candidatura dopo avere perso 22 voti rispetto alla precedente votazione. «Prendo atto che non ci sono le condizioni di serenità e di contesto politico per affrontare una nuova verifica parlamentare», ha spiegato Pitruzzella. Il presidente dell’Antitrust ha perso quota in seguito alla sua iscrizione nel registro degli indagati della procura catanese (gli viene contestato il reato di corruzione in atti giudiziari per un vecchio lodo arbitrale tra due università siciliane). A rimanere in campo senza chance è un altro candidato di centro, Gaetano Piepoli, sponsorizzato dal gruppo Per l’Italia di Dellai e Tabacci. Ha ottenuto 82 voti. Pochi per sperare di arrivare al vertiginoso quorum di 571. Ieri Barbera e Sisto ieri hanno raggiunto quota 545 e 527 incrementando il loro consenso. Pd e Fi erano convinti di essere aall’ultimo miglio e di potercela fare. Ma le cose si sono messe male dopo l’abbandono di Pitruzzella.
Ap non ha un candidato di riserva e quindi oggi alle 19 i parlamentari di Alfano non voteranno Barbera e Sisto. Hanno il dente avvelenato con coloro che avrebbero dovuto votare il presidente dell’Antitrust e non l’hanno fatto. Ovvero Sel e tutta la sinistra del Pd condizionati dall’inchiesta della procura catanese. Ma secondo Cicchitto i motivi sono altri: la minoranza Pd non vuole che Renzi abbia la maggioranza alla Consulta per poter affossare la legge elettorale e la riforma costituzionale.
Sono venuti a mancare pure i voti della Lega che ufficialmente ha votato scheda bianca. I 5 Stelle non ci credono e accusano il Carroccio di avere partecipato all’«inciucio» con Pd e Fi. «La Lega voterà il candidato Dem in cambio di un posto alla Corte dei Conti», è l’accusa del grillino Danilo Toninelli. Il quale continua a indicare per la Consulta il prof. Franco Modugno: «Una personalità indipendente a differenza di Sisto, avvocato di Berlusconi, e di Barbera che Renzi vuole mandare alla Consulta per salvaguardare l’Italicum». «Una cosa da matti - replica Ermini del Pd - se un costituzionalista è a favore dell’Italicum non è degno, se invece è contrario va bene». I leghisti Fedriga e Centinaio non accettano di essere di essere considerati inciucisti: ricordano a M5S di aver fatto l’accordo con il Pd sul Csm e Rai.
A questo punto potrebbe venir fuori una nuova terna gradita a M5S: ok a Barbera se viene aggiunto il nome di Modugno e, al posto di Sisto, quello della professoressa Maria Alessandra Sandulli. Se il Pd abbandonasse Barbera, i grillini sarebbero pronti a votare il prof Massimo Luciani.

Repubblica 2.12.15
Un’altra volta il Parlamento tradisce le sue prerogative
Se le istituzioni affondano nella palude delle astuzie
I vertici del Pd hanno cercato di mettere in scena un mini-patto del Nazareno per non coinvolgere (sbagliando) i Cinque Stelle
di Stefano Folli

ANCORA una volta il Parlamento si è dimostrato incapace di esercitare una sua precisa prerogativa e di eleggere ben tre giudici della Corte Costituzionale. Ancora una volta la Consulta si trova a un passo dalla paralisi per responsabilità politica di chi non riesce a quadrare il cerchio scegliendo nomi adatti su cui sia possibile l’accordo dell’aula.
È una situazione al limite dello scandalo istituzionale. Sono mesi che si tenta di sbrogliare la matassa senza venire a capo del rebus. Troppi errori, troppa superficialità. E anche una grave sottovalutazione dei rapporti di forza reali. Se il sistema è ormai fondato su un triangolo di cui il movimento Cinque Stelle rappresenta uno dei due lati forti insieme al Pd, non si capisce perché il partito del presidente del Consiglio, sostenuto dai centristi, si ostina a cercare un’intesa solo con il lato più debole, il centrodestra berlusconiano. Accordo che peraltro non convince la Lega, socio forte del patto di destra nella sua ultima versione.
L’ultimo sbaglio conduce a Giovanni Pitruzzella, presidente dell’Antitrust e candidato dell’area di centro che si è ritirato ieri sera dopo l’ultimo insuccesso. Pitruzzella risulta sotto inchiesta da parte della procura di Catania per corruzione in atti giudiziari. C’è da domandarsi con quale criterio sia stato proposto al Parlamento questo nome in presenza di una questione giudiziaria così delicata: era ignota a tutti? Oppure qualcuno ha agito in modo da occultarla? O ancora - ipotesi più probabile - il fatto era noto, ma lo si è creduto ininfluente?
Ovviamente è possibile e anzi auspicabile che Pitruzzella sia al più presto prosciolto. In fondo, ritirandosi egli ha dimostrato sensibilità. Ma questo non toglie nulla all’opacità di una vicenda che si ritorce contro chi ha concepito e mandato avanti una candidatura inopportuna. Chi lo ha fatto ha dimostrato scarso rispetto verso il Parlamento e verso la stessa Corte. Proprio perché viviamo un’epoca turbolenta, i reggitori della cosa pubblica sarebbero tenuti a rafforzare le istituzioni, non a immiserirle con piccoli giochi di palazzo. Tutti sanno che Pitruzzella alla Consulta avrebbe liberato la poltrona all’Antitrust, cioè una posizione rilevante nel mosaico del potere. Ed è altrettanto vero che il candidato era accreditato di un giudizio positivo sulla legge elettorale, l’Italicum, al pari degli altri due nomi tuttora in ballottaggio. Quell’Italicum su cui la Corte potrebbe essere chiamata presto o tardi a esprimersi, così come si pronunciò, cancellandola, sul precedente Porcellum.
SE QUALCUNO ha ragionato in termini di mera convenienza nel favorire per la Consulta una triade compatta, oggi dovrà riconoscere che l’astuzia non ha pagato. Al di là della qualità delle persone coinvolte, che spesso non meritano lo stillicidio delle votazioni nulle, ora i tempi si allungano e la politica si rivela per quello che è: incapace di costruire una vera intesa di sistema che chiuda le falle invece di aprirne sempre nuove.
Intesa di sistema vuol dire comprendere l’attuale complessità dell’Italia politica e agire di conseguenza. A ben vedere, per garantire la solidità delle istituzioni e la loro efficienza non basta il monocameralismo, ma occorre evitare, ad esempio, che il Parlamento rimanga impallato in una trentina di votazioni a vuoto per eleggere tre giudici, di cui uno andava depennato fin dall’inizio per evidenti ragioni. Si direbbe che i vertici del Pd abbiano creduto di mettere in scena un mini-patto del Nazareno per dividersi i tre posti in palio alla Corte (più la presidenza dell’Antitrust). Quando è chiaro che la resurrezione degli accordi Renzi-Berlusconi non è riproponibile oggi in termini meccanici. Vero è che l’anziano leader di Forza Italia sta coprendo il governo su una serie di questioni, compresa la campagna elettorale per i sindaci di Roma e Milano. Ma la Consulta imponeva un bagno di realismo e la considerazione che il movimento di Grillo, o forse ormai di Di Maio, andava e va coinvolto. Non lo si è fatto e se ne pagano le conseguenze.

Corriere 2.12.15
I giudici della Consulta, scegliamoli col sorteggio
di Michele Ainis
qui
http://www.corriere.it/opinioni/15_dicembre_02/ora-scegliamo-il-sorteggio-tre-giudici-consulta-77a6ba5e-98bc-11e5-85fc-901829b3a7ed.shtml

La Stampa 2.12.15
Commenti trionfalistici e timori elettorali
di Marcello Sorgi

Matteo Renzi veleggia verso la Leopolda (si aprirà nella vecchia stazione di Firenze il prossimo fine settimana, a partire dall’11) e i dati forniti dall’Istat autorizzano l’ottimismo con cui il premier si è presentato ieri alla presentazione del libro di Bruno Vespa, un appuntamento che ha scherzosamente definito istituzionale (prima di lui, negli anni del centrodestra, ci andava Berlusconi).
L’Istat dice che la disoccupazione in Italia ha toccato il minimo storico (11,5 per cento), che il lieve calo degli occupati, accanto a quello più consistente dei disoccupati, non interrompe la tendenza alla ripresa, che anche il capo economista del Tesoro Riccardo Barbieri, pur riconoscendo che ci si aspettava qualcosa di più, ha definito in linea con le previsioni. Renzi ha raccontato del continuo scambio di sms con il ministro dell’Economia Padoan, forse anche per cancellare l’impressione di un dissidio, nei giorni scorsi, a proposito delle possibili conseguenze degli attentati di Parigi e della recrudescenza del terrorismo islamico, con l’allarme che ne deriva nell’opinione pubblica. Sta di fatto, ha spiegato il premier, che tra lo 0,7 per cento di crescita delle previsioni e lo 0,9 delle speranze nate dai primi dati d’autunno, la chiusura più probabile dell’anno sarà allo 0,8. E si capisce che per il presidente del consiglio l’importante è chiudere meglio del previsto, per la prima volta dopo tanti anni di bilanci al negativo.
Sulla Leopolda in preparazione, che per tre giorni - non senza intenti celebrativi - discuterà dei risultati raggiunti in due anni, dalla lunga corsa delle primarie alla conquista del governo a oggi, già si addensano le polemiche della minoranza Pd, che ha programmato in contemporanea una propria assemblea. Bersani critica il fatto che la manifestazione si svolga senza le insegne del partito e accusa il premier di aver costruito una sua corrente, dimenticando di essere il segretario di tutto il Pd. Il lettiano Boccia sostiene che l’allarme terrorismo è stato utilizzato come alibi per nascondere i risultati economici del governo, meno esaltanti di quel che ci si aspettava.
Renzi al momento non ha voglia di far polemiche e rinvia lo scontro. La Leopolda sarà, come gli altri anni, un consuntivo e insieme una rappresentazione del renzismo, dalle riforme, alla buona scuola, al lavoro creato grazie al jobs act. Sarà anche una passerella per la classe dirigente che il premier sta costruendo attorno a se. La partita vera, quella dei candidati da scegliere per le amministrative nelle grandi città, è rinviata al prossimo anno. E Renzi è il primo a sapere che sarà dura.

Repubblica 2.12.15
Gianni Cuperlo (sinistra dem): dibattito straordinario sulla crisi del pd, senza ridiscutere il leader
“Tornano i notabili. Congresso per rifare tutto”
intervista di Giovanna Casadio

ROMA «Nel Pd c’è da ripensare tutto, non si tratta di fare maquillage, siamo tornati al notabilato ». È lo sfogo di Gianni Cuperlo, leader di Sinistra dem.
Cuperlo, cosa pensa della candidatura di Sala a Milano e dello scontro che si è aperto?
«Che verso Milano e il centrosinistra di quella città serve rispetto. Pisapia è stato il sindaco della svolta e avrei firmato perché proseguisse. Oggi l’impegno è garantire che il cambiamento non si fermi e la parola spetta alle primarie».
Il Pd è un partito desertificato, non ha più candidati forti per le amministrative?
«Il problema è che è venuto meno un modello che ha retto per decenni e che le sole primarie non sanno più compensare. In assenza di nuove ragioni e forme della democrazia si torna al notabilato che ha preceduto l’avvento dei partiti e delle loro culture. Sarebbe saggio occuparsene ».
Ci vuole una nuova segreteria dem?
«Se si riferisce a qualche riassetto organizzativo dico che un maquillage non basta. Dovremmo misurarci con le difficoltà, uscire dalle nostre corazze e da cordate tenute assieme per tutelare carriere protette».
Renzi dovrebbe dedicarsi solo al governo e lasciare la segreteria del Pd?
«A Renzi chiedo di non sottovalutare la perdita di senso di una comunità. Pensare che i problemi dipendano solo dal doppio incarico può consolare ma non convince. Al congresso mi sono battuto per una distinzione dei ruoli. Continuo a credere che sarebbe meglio ripensarci, ma non ci si può fermare a questo».
Il calo di iscritti è consistente e costante ormai?
«Qua non c’è qualche vite da stringere o allentare. Si tratta di ripensare l’edificio in un mondo radicalmente mutato.
Come formiamo una classe dirigente e costruiamo una cittadinanza attiva. Siamo alle prese con uno scadimento di stili e col ritorno nel Paese di una questione morale. Non ci rinnoveremo sollevandoci per i capelli come il barone di Munchausen ».
Quindi lei che proposta ha?
«Renzi convochi lui un congresso con un unico tema, dedicato al partito e alla risposta che diamo alla crisi della democrazia in un’Europa aggredita nei suoi valori e con una sinistra fragile nelle risposte. Un appuntamento da tenere presto che non preveda la scelta di un nuovo leader rispettando per quello la scadenza del 2017. Un momento centrato sulla lettura della società, dove si discuta come cambia la rappresentanza nei partiti, nei sindacati, in quelle periferie dove siamo sempre meno presenti».
Le amministrative sono il vero test politico di metà mandato per Renzi?
«Penso di sì. Il punto è che noi vinciamo se non ci chiudiamo nell’autosufficienza e investiamo sul nuovo centrosinistra per le città e per il governo del Paese. Lo dico anche ai nostri amici di Sinistra Italiana, questo è il momento dei ponti perché l’avversario non è il Pd ma la destra».
Lei ha mai pensato di candidarsi a Roma?
«Sinceramente no. Roma è la città dove vivo e se vogliamo che si rialzi va risvegliato l’orgoglio di un popolo».
Anche quest’anno la Sinistra Dem farà una contro Leopolda?
«Ma quale contro Leopolda! Una sinistra che torni a pensare senza subalternità serve a tutti. Da tempo so che il congresso è alle spalle. Oggi sento che la sfida è mescolare le forze tra componenti, nei territori, con la cultura. Per cui bene ogni confronto, c’è il 12, ci saranno altri momenti perché questo non è tempo di indossare casacche ma di seminare idee».

La Stampa 2.12.15
Bersani e la Leopolda: andrei se Matteo ci mettesse il simbolo Pd
“Ma per lui forse il partito è solo un ingombro”
di Carlo Bertini

«Io non voglio fare il capocorrente, noi il 12 ci riuniamo ma sotto le insegne del Pd. Dove c’è il simbolo del Pd io vado e se ci fosse alla Leopolda ci andrei», dice Pierluigi Bersani appoggiato ad una colonna di fronte l’aula della Camera. Ma non è una mano tesa, è un modo per dire che non andrà: perché l’ex segretario, in vena di critiche al premier, sa che anche quest’anno come sempre la Leopolda non sarà organizzata sotto le insegne Pd.
Il premier però tiene molto alla riuscita dei banchetti del prossimo week-end, quelli sì del Pd, oltre 1200 punti di incontro, dove sono chiamati a dare una mano tutti, minoranza compresa. Quindi non solo Renzi, la Boschi e il giglio magico, ma anche i dissidenti della minoranza presenzieranno qui e là. «Noi dovevamo tenere il nostro evento sabato prossimo, ma poi hanno detto che c’erano i banchetti del Pd nelle piazze e la facciamo il 12, ma non chiamatela contro-Leopolda, l’importante è che non sia vietato riunirsi per esprimere un punto di vista».
Pure Bersani dunque sabato andrà «da qualche parte»: per far vedere che dà una mano, anche se non è per nulla convinto di tante cose, a cominciare da come viene gestito il partito. Anche lei mette in discussione il doppio ruolo premier-segretario? «Io non chiedo nulla, lui faccia come vuole: lo statuto lo consente ma non lo obbliga. Io avevo detto subito che se avessi fatto il premier non avrei tenuto i due incarichi, perché il Pd è una creatura giovane e la ruota deve girare». Perché non ha cambiato questa regola quando era al comando? «Ma perché per farlo ci vuole una maggioranza qualificata in assemblea nazionale e io non ce l’avevo».
E quando gli si chiede se per rinforzare il Pd Renzi dovrebbe nominare una segreteria più politica, si scalda: «Le formule e gli organismi non sono il problema, le soluzioni se si vuole si trovano. Il problema di fondo è capire se il partito viene considerato un collettivo o un ingombro, perché magari si preferisce tenere un rapporto diretto con i cittadini senza mediazioni. Se è così auguri». Le primarie il 20 marzo? «Certo c’è tempo, il problema è se ci sono idee chiare su cosa fare». Bersani prova a dare la sua ricetta. «Dobbiamo tenere dentro quello che c’è di buono fuori dal Pd, essere un fondamento di alleanze di centrosinistra. Un campo aperto. Dove ci sono sindaci uscenti in un minuto si può risolvere la questione. Ma dove fai le primarie ti devi tenere largo, con un candidato Pd, uno della sinistra radicale e un civico. Così poi vinci sicuro, con meno di questo non so». Dunque senza coalizioni di centrosinistra si rischia.
Ma se gli si fa notare che l’invito a stare in coalizione allora andrebbe rivolto pure ai compagni usciti dal Pd, che sostengono altri candidati o si presentano da soli come Fassina a Roma, l’ex leader ammette che «sì è un discorso che vale per tutti, ma sono processi che vanno avviati per tempo». A preoccupare Bersani più dei grillini, certo avvantaggiati a Roma, è il centrodestra: «Perché possono perdere la lotteria, ma il senso comune ora va lì, i temi di fondo, sicurezza e immigrazione, sono di destra. E se loro trovano una sintesi è un problema».

Corriere 2.12.15
Bersani: «Il problema non è il grillismo, ma la destra»
Rischiamo di perdere senza il centrosinistra largo. Solo così si fanno le primarie
Farei correre anche Fassina. L’apertura vale per tutti
Il premier-segretario? Lo statuto lo consente ma io mi ero impegnato a non cumulare le cariche
intervista di Monica Guerzoni

ROMA Pier Luigi Bersani è preoccupato (e molto) per il Pd. E a dieci giorni dalla contro-Leopolda che lo vedrà sul palco del Teatro Vittoria, lancia energici avvisi ai naviganti: «Senza un piano, alle amministrative si rischia».
Il 12 dicembre lei sarà a Roma, Renzi a Firenze. Leopolda e anti Leopolda?
«Non la chiamerei così. Speranza e Cuperlo hanno pensato a una manifestazione per ribadire che nel Pd c’è anche un altro punto di vista e io ci sarò, anche se non l’ho organizzata io perché non sono un capocorrente. Mi risulta che non sia ancora stato vietato riunirsi. E dove ci sono le bandiere del Pd, io ci vado». E poi, ridendo: «Si resta segretari a vita...».
Non va alla Leopolda perché non è invitato, o perché non ci sono le bandiere Pd?
«Se ci fosse la bandiera del Pd, potrei anche andarci. Quando il segretario ero io, lo ero di tutto il Pd e non mi sono mai messo a organizzare correnti. Sono stato ospite anche della destra ad Atreju, ma nel nostro campo io vado solo dove ci si riunisce in nome del Pd».
Renzi deve rinunciare al doppio incarico?
«Lo Statuto consente di fare al tempo stesso il segretario e il premier, anche se non obbliga. Io mi ero impegnato, se avessi fatto il premier, a non cumulare le cariche. Il punto è, ma si vuole davvero discutere dello stato del partito? Se lo si vuole, dirò anch’io la mia».
Chiederà un segretario politico per il Nazareno?
«Io non chiedo nulla, Renzi faccia come vuole. E comunque vedremo, poi le formule si trovano. Il problema di fondo è se il partito è un collettivo, se è ritenuto utile, o se è considerato un ingombro. Perché magari si preferisce un rapporto diretto con i cittadini, senza mediazioni. Se è così, auguri!».
Teme una batosta alle amministrative?
«Non ce lo ha ordinato il dottore di fare le primarie. Ma se le fai, devi tenerti largo. Devi tenere conto che esiste un centrosinistra diffuso e lavorare perché ci sia un nome del Pd, uno della sinistra e un civico. Così, vinci sicuro. Se invece ti tieni più stretto, io non lo so se vinci».
Lei aprirebbe le primarie di Roma anche a Fassina?
«Sì, vale per tutti. Ma sono processi che non si improvvisano, vanno avviati per tempo. Decisioni così importanti non si possono prendere una settimana prima del voto».
Non vede una strategia sulle alleanze?
«Ricordo quando si votò a Milano e i commentatori dissero “ha vinto Pisapia, ha perso Bersani”. Mi scappava da ridere, perché invece Pisapia mi andava da Dio e adesso nessuno direbbe che non va bene e anzi ci butteremmo in ginocchio, per averlo di nuovo. Di che stiamo parlando? Stiamo parlando del centrosinistra».
Per battere Grillo serve il centrosinistra unito?
«Il problema non è il grillismo, è la destra. E io sono preoccupato».
Il centrodestra può prendersi le città?
«Il senso comune della gente va in quella direzione, dall’insicurezza, alla paura dell’immigrazione. E se il buon Dio non le fa perdere la ragione e trovano una sintesi credibile, per noi è un problema. A meno che la destra non perda il biglietto della lotteria».
Anche a Roma la destra può farcela?
«Vedo i nostri in difficoltà. A Roma la carta grande ce l’ha la destra, per le ragioni di fondo che dicevo. E per altre ragioni, ce l’hanno i grillini. Da Marrazzo in poi, passando per Alemanno, i Cinquestelle possono dire ai romani “li avete provati tutti, perché non provate anche noi?”. È un tema forte, questo».
Le primarie il 20 marzo vanno bene, o è tardi?
«Il tempo c’è. Il problema è se ci sono le idee chiare di cosa fare, in questo tempo» .

Corriere 2.12.15
La spinta dem per Giachetti candidato Le alternative Con un no dell’ex radicale per Roma si fanno anche i nomi di Franceschini e Gentiloni Anzaldi Se Renzi decide che tocca a lui, Roberto a quel punto non potrà sottrarsi
Il pressing sul vicepresidente della Camera, che è cauto (e chiede garanzie): io ho sempre corso per vincere
di M. Gu.

ROMA «Come ne esco? Semplice... Non entrandoci affatto». Nel bel mezzo del Transatlantico di Montecitorio, Roberto Giachetti allarga le braccia e dispensa battute. Scherzoso come sempre, l’ex radicale vicepresidente della Camera sembra meno rilassato del solito. Assediato dai giornalisti, anche lui comincia a temere che il segretario del Pd stia facendo sul serio e che lo abbia davvero prescelto come candidato sindaco di Roma.
«Se Renzi decide che tocca a lui, Roberto non potrà sottrarsi» ripetono i colleghi. Ma Giachetti spera in cuor suo che il segretario del Pd ci ripensi e si mostra altrettanto determinato a non scendere in campo: «Sono quarant’anni che faccio politica e a 58 voglio andare in pensione». Ne ha solo 54... «Appunto. Finisco la legislatura e apro un B&B». Dal Campidoglio si gode una vista magnifica sui Fori, davvero ci vuol rinunciare? «Quando lavoravo con Rutelli (capo della Segreteria del sindaco e poi capo di Gabinetto, ndr ) dalla mia stanza avevo una vista più bella della sua. Ma se vogliono un rutelliano, meglio l’originale».
Di battuta in battuta, Giachetti scopre il nervo che fa gemere i «dem». Stando ai sondaggi, il Pd è nove punti sotto al M5S e tra i «big» del partito è scattato il fuggi fuggi. Comprensibile allora che Giachetti non abbia tutta questa voglia di immolarsi e chieda garanzie al partito. «In vita mia — confida — non ho mai partecipato a una gara per perdere».
La campagna di Roma è «estremamente rischiosa» suggerisce Michele Anzaldi ed è naturale che Giachetti non ambisca a rompersi l’osso del collo: «Chi glielo fa fare? Sarà vicepresidente della Camera ancora per due anni e mezzo, conosce le riforme come pochi altri... Roberto si candida se il Pd glielo chiede in ginocchio e fa un grande investimento su di lui». Per Walter Verini la strada è un’altra e l’ha indicata Rutelli: «Più che pensare sin da ora ai candidati, il Pd raccolga le energie attorno a un progetto. Il nome giusto nascerà da lì». Il problema, sospetta Lorenza Bonaccorsi, è che una parte del Pd «spera di perdere alle amministrative per dare una botta a Renzi».
Il premier ha fiutato il pericolo e studia le contromosse. Mettere in sicurezza Torino e Bologna con Fassino e Merola. Indire le primarie a Milano, sperando che i gazebo incoronino Giuseppe Sala. Schierare a Napoli un renziano capace, se non di vincere, almeno di contrastare Bassolino. E infine, puntare su Roma lanciando un «pezzo grosso» del Pd. Se Giachetti dovesse tirarsi fuori, i nomi che si fanno al Nazareno sono quelli di Dario Franceschini, Paolo Gentiloni e Andrea Riccardi. E poi c’è l’asso nella manica: Maria Elena Boschi. Renzi non vorrebbe rinunciare a un pilastro del governo, eppure, se il M5S dovesse trovare il nome giusto, la responsabile delle Riforme potrebbe rivelarsi la sola risorsa in grado di «salvare» il Pd.
È sempre lei, la Boschi, che sta organizzando la Leopolda numero sei, sotto la regia di Simona Ercolani. Basta con i tavoli di lavoro e i parlamentari sul palco, la tre-giorni renziana «La terra degli uomini», dall’11 al 13 dicembre, sarà la Leopolda dei campioni: dal neoassunto grazie al Jobs act all’insegnante che ha ottenuto la cattedra con la Buona scuola. E poi, in un crescendo di notorietà, le star del tennis Flavia Pennetta e Roberta Vinci, l’astronauta Samantha Cristoforetti e, forse, anche Federica Pellegrini, oro olimpico di nuoto.

La Stampa 2.12.15
Idea Linus come sindaco di Milano: “Il Pd me lo ha chiesto, io ho rifiutato”
Il direttore artistico di Radio Deejay ha confermato all’Adnkronos l’interessamento del Partito democratico: «Ho detto “no grazie”, non mi sento all’altezza»
qui
http://www.lastampa.it/2015/12/01/italia/politica/idea-linus-come-sindaco-di-milano-il-pd-me-lo-ha-chiesto-io-ho-rifiutato-TxeccDg2aq8eLHCSE8UKuL/pagina.html

Corriere 2.12.15
L’economia congela le scelte sulle elezioni
Renzi corregge al rialzo le previsioni sul Pil e rinvia a marzo qualunque scelta sulle candidature nelle città per il voto amministrativo
di Massimo franco

Il contrasto, se mai c’è stato, da ieri sembra gioco delle parti. Con il premier Matteo Renzi che tiene una linea prudente sulla ripresa, attestandosi su uno 0,8 per cento per il 2015. E il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, fino a due giorni fa messaggero di previsioni in grigio, che gli suggerisce di trincerarsi sullo 0,9, convinto di riuscire a tagliare quel traguardo. Si tratta di un gioco in acque basse, comunque. Risente delle incertezze provocate dalle stragi dell’Isis, e forse di qualche eccesso di ottimismo smentito dalla crisi europea. Un governo che cerca sempre di sfuggire alla trappola dello «zero virgola», ci si aggrappa.
Con abilità e disinvoltura, ma è costretto a farlo. «Che si chiuda a 0,8, 0,9 o 1 per cento, i dati sono ancora in movimento, migliori rispetto alle previsioni di inizio anno», ha detto Renzi. Prima si parlava infatti di 0,7 di crescita. Ma nessuno è in grado di affermare se la tendenza finale sarà al rialzo o al ribasso, perché i fattori esterni saranno decisivi. Il premier fa notare che «la disoccupazione è calata dell’1,5 per cento; quella giovanile del 6. E i posti di lavoro sono 300 mila in più. Voglio che l’Italia vada meglio della Germania».
Purtroppo, però, l’Istat conferma la frenata della crescita. E l’elemento prevalente è una cautela che finisce per allungare un alone di scetticismo su alcune misure del governo. Le incognite internazionali condizionano tutto; e diventano una ragione, o un pretesto, per rinviare le scelte: in particolare quelle politiche ed elettorali, sulle quali Renzi deve affrontare la solita faida dentro il Pd. Il voto amministrativo di primavera si profila difficile. Le candidature a sindaco in città come Milano, Roma e Napoli diventano strategiche; ma la strategia di Palazzo Chigi non prende ancora forma. Anche per questo si prende tempo.
Ma il premier ha qualche ragione da opporre a chi gli chiede di fare presto. «Nessuna persona normale pensa che la priorità sia una discussione sulle amministrative adesso», si difende. «Con i grandi scenari che ci sono, la necessità di rilanciare l’economia, l’Italia che riparte...». Il motivo, però, è anche la difficoltà di trovare accordi n attesa delle primarie del Pd a marzo. Renzi sostiene che «al momento» non esistono candidati. Forse perché ce ne sono troppi, e nessuno che appaia vincente. L’unica ammissione è stata di definire «non in partita» Alfio Marchini come sindaco a Roma.
Un giudizio accolto dall’imprenditore con irritazione, perché nel momento più acuto della crisi tra il Pd e il «suo» sindaco Ignazio Marino, era stato lui a fornire al Pd i voti che gli mancavano. E Marchini glielo ricorda, piccato. Le trenta votazioni a vuoto per eleggere i giudici costituzionali sono un altro pezzo dello scontro nel Pd. Con simili premesse, per i Democratici le primarie potrebbero non bastare a placare una conflittualità interna più forte di qualunque richiamo all’unità.

Corriere 2.12.15
Capitale dei rifiuti, Roma maglia nera per la spesa: 220 euro a testa
Il servizio medio per la gestione dei rifiuti, calcolato dalla Confartigianato, è di 220 euro e 32 centesimi per i cittadini laziali, che nel 45,9% dei casi sono insoddisfatti del servizio. E le tariffe sono più alte del 27% rispetto alla media nazionale
di Sergio Rizzo
qui
http://roma.corriere.it/giubileo-2015/notizie/capitale-rifiuti-roma-maglia-nera-la-spesa-220-euro-testa-db0740a8-985f-11e5-b53f-3b91fd579b33.shtml

La Stampa 2.12.15
Un clic e i funzionari cancellavano le multe. Così le casse di Roma hanno perso milioni
Cinque dirigenti comunali rispondono di falso, abuso d’ufficio e truffa. Centinaia di migliaia le infrazioni al divieto di ingresso nella Ztl
di Ilario Lombardo
qui
http://www.lastampa.it/2015/12/02/italia/cronache/un-clic-e-i-funzionari-cancellavano-le-multe-cos-le-casse-di-roma-hanno-perso-milioni-zbbq50ocm9l5LliocrcGfK/pagina.html

Corriere 2.12.15
Liberalizzazioni in ritardo e pochi investimenti È ancora stagnazione
Nel nostro Paese lavorano meno persone rispetto alla media Ue. Ma in tre anni sono 900 mila in più gli occupati sopra i 50 anni
di Enrico Marro

Diciamo la verità, che il prodotto interno lordo cresca dello 0,9% come ha previsto il governo o dello 0,8% come si potrebbe pensare dopo le stime dell’Istat, non fa differenza. Che l’occupazione sia calata dello 0,2% a ottobre, pure. Uno 0,2 in più o in meno è irrilevante su dati che sono frutto di un’indagine campionaria. Inoltre, possiamo anche pensare che, dopo il tragico 13 novembre di Parigi, un certo rallentamento dell’economia sia inevitabile. Pier Carlo Padoan, che ancora prima di essere ministro del Tesoro è un economista, lo ha messo in conto e lo ha fatto chiaramente capire rispondendo alle domande di Lorenzo Salvia, domenica sul Corriere . Ma, anche ammettendo tutto questo, va ricordato che i segnali di rallentamento già c’erano: nel primo trimestre del 2015 il prodotto lordo era aumentato dello 0,4% rispetto al trimestre precedente; nel secondo dello 0,3% e nel terzo dello 0,2%, appunto. Ma soprattutto non cambia il dato di fondo: l’Italia continua a crescere poco. Mentre da noi il Pil è salito nell’ultimo anno dello 0,8%, negli Usa l’aumento è stato del 2,3%, in Germania dell’1,7%, in Francia dell’1,2%. Nell’area euro dell’1,6%. Anche sul fronte del lavoro la situazione è quella ben nota: in Italia lavorano meno persone (quelle in regola, almeno) che negli altri Paesi e non abbiamo ancora recuperato la crisi. Gli occupati erano 23 milioni e 200 mila nell’aprile del 2008, sono ora 22 milioni e 443 mila. È vero, sono saliti di 310 mila dal minimo del settembre 2013, ma sono ancora 800 mila meno del livello di sette anni fa. Che, quand’anche fosse raggiunto, vedrebbe comunque l’Italia con un tasso di occupazione di quasi 10 punti sotto la media Ue.
Il governo Renzi, con i massicci sgravi sulle assunzioni a tempo indeterminato e con il Jobs act, ha ottenuto un lieve aumento dell’occupazione stabile, ma si è dovuto svenare, mettendo sul piatto una quindicina di miliardi. E i dati dell’Istat dicono pure che quel poco di lavoro in più si deve agli occupati over 50, saliti da gennaio 2013 di circa 900 mila unità, grazie soprattutto all’incremento dell’età pensionabile, mentre gli under 50 sono calati di quasi 800 mila. Infine, un dato dice più di tutto: i lavoratori dipendenti a tempo indeterminato erano a dicembre 2014, l’ultimo mese prima degli sgravi, 14 milioni e 587 mila; sono cresciuti finora di appena 128 mila unità, a 14 milioni 715 mila. Insomma, nonostante gli sforzi, il bottino è magro. Lo stesso governo se ne è reso conto e ha drasticamente tagliato la decontribuzione per il 2016. Gli sgravi e l’abolizione dell’articolo 18 hanno aumentato la propensione ad assumere, ma l’assunzione vera e propria scatta solo a fronte di un aumento della domanda.
Dopo il Jobs act l’agenda delle azioni di governo da intraprendere è ancora fitta. E deve avere come obiettivo la competitività delle aziende. Per favorirla bisogna portare avanti le liberalizzazioni, che invece sembrano finite in secondo piano; ridurre il costo del lavoro in maniera strutturale e non episodica (perché, per esempio, non si usano a questo fine le decine di miliardi dei fondi europei, invece di sprecarli?); incentivare gli investimenti privati e rilanciare quelli pubblici in infrastrutture; migliorare la scuola, l’università e la formazione. Aziende più competitive creeranno più occupazione e il Pil crescerà. Il resto è contorno .

Repubblica 2.12.15
Ocse: rischio pensioni per l'Italia. Penalizzati mamme e giovani
La spesa previdenziale è la più alta dell'intera area, mentre i contribuiti versati da lavoratori e imprese sono al 33%. A rendere più difficile la tenuta del sistema contribuisce la sentenza della Consulta sulle perequazioni
qui
http://www.repubblica.it/economia/2015/12/01/news/ocse_pensioni-128543541/?ref=HREC1-15

La Stampa 2.12.15
Disinnescare la bomba previdenziale  che colpisce i giovani precari e le donne
Speranza di vita e contributivo spostano l'età della pensione a 70-75 anni con forte rischio povertà
di Walter Passerini
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http://www.lastampa.it/2015/12/01/blogs/lavori-in-corso/disinnescare-la-bomba-previdenziale-che-colpisce-i-giovani-precari-e-le-donne-ohd580j5EgBpXxr9gTbgSK/pagina.html

La Stampa 2.12.15
La beffa delle pensioni per i nati negli anni ’80: lavoreranno fino ai 75, assegno inferiore del 25%
Simulazione dell’Inps su chi oggi ha 35 anni. Boeri: il rischio povertà si sposta sui giovani. L’Ocse in pressing sull’Italia: bene le riforme, ma servono altri sforzi. Altolà dei sindacati
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http://www.lastampa.it/2015/12/01/economia/i-enni-di-oggi-lavoreranno-fino-a-anni-ma-avranno-una-pensione-del-in-meno-ILSXDvtPpRsg9DtufECQuK/pagina.html

Corriere 2.12.15
Inps
Il cammino difficile per riformare le pensioni
Servono una macchina amministrativa migliore, la riduzione dei contenziosi e la lotta a evasione e frodi
La giustizia intergenerazionale produce dei contraccolpi ma le priorità devono essere equità e trasparenza
di Alessandro Del Boca e Antonietta Mundo

La recente proposta Inps ha avuto il merito di far emergere come sia azzardato agire sulle pensioni in essere, sia attraverso la differenza tra retributivo e contributivo sia attraverso la differenza tra età effettiva e legale di pensionamento. L’Istituto vorrebbe usare le prestazioni che non ci saremmo veramente guadagnati per finanziare la lotta alla povertà degli ultra cinquantacinquenni disoccupati e una più ampia flessibilità in uscita dal lavoro. A questo fine Inps penalizza in media del 3% l’anno chi anticipa la pensione prima dell’età legale che dal 2016 è di 67 anni e 7 mesi: un lavoratore che va in pensione a 63 anni e 7 mesi subisce tagli del 9%. La proposta ricalcola anche la parte retributiva delle pensioni in essere sopra 2.400 euro netti mensili, se l’età di pensionamento è inferiore all’età ricalcolata dall’Inps (che ieri, nella sede ritrovata di piazza Colonna in Roma, ha ospitato un confronto sull’argomento, con la presentazione del rapporto annuale sulle pensioni Ocse).
Il padre di una di noi due oggi 90enne, andato in pensione nel 1981 a 57 anni vedrebbe la sua pensione tagliata del 21,5%. Se fosse andato in pensione nel 1989, a 64 anni, l’età ricalcolata dall’Inps, non ne subirebbe alcuna. Nel 1981 non sapeva che nel 2015 a 90 anni qualcuno avrebbe proposto di decurtargli la pensione e avrebbe fatto altre scelte. La previdenza deve garantire, nel momento di maggiore fragilità, la sicurezza per il futuro. Ciascun sistema di calcolo ha già insite penalizzazioni. Il retributivo dopo il 1992 è penalizzato con il calcolo decennale delle retribuzioni medie pensionabili, le aliquote di rendimento annuo scendono gradualmente per redditi superiori a 46.169 euro dal 2% allo 0,9% e per anzianità oltre i 40 si azzerano. Nel contributivo, l’età di pensionamento è una variabile importante per modulare l’entità di una pensione ma non l’unica. Influenzano la prestazione anche: l’evoluzione della retribuzione, l’aliquota, il rendimento del montante e l’andamento dell’economia, il massimale di retribuzione imponibile e l’evoluzione dell’aspettativa di vita. È impossibile essere corretti nel fare giustizia intergenerazionale.
Una riforma previdenziale deve essere decisa dal Parlamento: un istituto amministrativo non può porre a carico dei propri pensionati azioni per combattere povertà e disoccupazione: non gli compete. Secondo lo Statuto del 1935, l'Inps ha il compito di redigere i bilanci, organizzare e amministrare la struttura e le risorse affidate da imprese e lavoratori per pagare le pensioni. Articolati di legge con «importi soglia» difficilmente individuabili, perché variabili nel tempo a seconda delle composizioni familiari, generano insicurezza e contrastano con il clima di fiducia che il governo sta cercando di ricostruire. Chi ha una pensione di 2400-3500 euro netti deve poter decidere se cambiare la lavatrice o l’auto: questa tassa costerebbe di più in rinuncia ai consumi del poco risparmio previdenziale. La proposta Inps attinge risorse anche da trattamenti bassi con erogazioni assistenziali per gli over 65 disagiati come maggiorazioni sociali, 14ma, importo aggiuntivo o integrazioni al minimo di pensionati migrati in altri Paesi. Infatti prevede decurtazioni graduali fino all’azzeramento dell’integrazione assistenziale tra le soglie dei 32.000 e 37.000 euro lordi di reddito familiare equivalente. Si cambiano le «unità di misura» reddituali ben individuabili e conosciute per la verifica dei mezzi, sostituendole con concetti di «potenziale economico della famiglia», in base alla Scala Ocse modificata, usata per confronti sulla povertà tra Paesi e per interventi assistenziali Isee. Il sistema diventa più complesso e sposta l’asse di riferimento reddituale da parametri previdenziali ad assistenziali. I risparmi sarebbero stimati sui potenziali di reddito familiare di oggi, senza considerare che per difendersi i coniugi si possono anche separare, riducendo i risparmi attesi. In qualsiasi ordinamento civile decurtare le pensioni si può solo in due casi: bancarotta o rivoluzione, dice Pietro Ichino. In congiunture drammatiche come la manovra Monti-Fornero, l’operazione giustizia tra generazioni si è limitata a deindicizzare le pensioni medio-alte, alzando l’età piuttosto che tagliare le pensioni.
Battaglie per creare equità all’Inps ce ne sarebbero: una macchina amministrativa migliore per gli utenti, lotta contro evasione e frode, procedure più semplici, gestione del personale che riduca il contenzioso tra dipendenti, ex dipendenti e Inps. Vuole l’Inps fare un’operazione di trasparenza? Pubblichi i dati economici sui contributi versati senza dare luogo a prestazione, pagati da milioni di «silenti»: lavoratori deceduti senza diritto a pensione o senza superstiti, stranieri rimpatriati con bassa contribuzione, disoccupati di lunga durata e donne che perdono il lavoro senza avere il diritto alla pensione, o prestazioni non riscosse. L’Inps non è un’assicurazione privata che applica aliquote di equilibrio, ma grazie ai trasferimenti dello Stato gestisce un’assicurazione sociale con aliquota contributiva sociale.
* Professore di Economia Consigliere di Sorveglianza Ubi
** Attuario, ex Coordinatore generale statistico attuariale dell’Inps

La Stampa 2.12.15
Zerocalcare: “La mia generazione è stata tagliata fuori da tutto”
Il fumettista Rech: solo insieme troveremo una soluzione
di Elisabetta Pagani
qui
http://www.lastampa.it/2015/12/02/societa/zerocalcare-la-mia-generazione-stata-tagliata-fuori-da-tutto-KMQGtokfiQy0kBErR9pnWI/pagina.html

La Stampa 2.12.15
Fine lavoro mai
di Massimo Gramellini

Il presidente dell’Inps Tito Boeri è diretto, sincero e poco maneggione. Durerà poco. Ma anche ieri si è comportato da galantuomo. Mentre il suo predecessore Mastrapasqua si vantava di nascondere ai giovani le cifre delle loro future pensioni per timore di rivolte (peraltro altamente improbabili in questo clima catatonico), Boeri ha detto con chiarezza che allo stato delle cose un trentenne di oggi potrà smettere di lavorare solo all’alba dei 75 anni, e per percepire dei simpatici assegni da fame. Chi ha avuto l’ardire di nascere dopo il 1980 sgobberà cioè tutta la vita, al fine di irrorare la pensione di chi è cresciuto in un’epoca di diritti sociali, ma anche di privilegiati, ladri ed evasori abbastanza asociali. E ne verrà ricompensato con un epilogo esistenziale a base di fatica e di stenti.
Ovviamente Boeri lo dice perché tutti ne prendano coscienza e facciano qualcosa per modificare il finale. Infatti che il finale sia quello, al momento, non è una profezia: è una certezza. Per fortuna in quarant’anni può ancora cambiare tutto, a cominciare dal concetto stesso di lavoro dipendente. Se nel mondo esistesse una classe dirigente non si dovrebbe occupare d’altro, ma da quando le personalità sono state sostituite dai personaggi e gli statisti dai battutisti, la politica si è appiattita su un eterno presente che coniuga i verbi al futuro solo per illudere e ingannare. Toccherà agli interessati, in questo caso ai trentenni, inventarsi una vita e un’economia diverse. Il tempo è l’unica cosa che non possono togliergli. 

La Stampa 2.12.15
Perché le imprese assumono i meno giovani
Esodati e più competenti
Gli intramontabili cinquantenni
Le aziende preferiscono chiamare lavoratori esperti
di Walter Passerini

Doveva essere un giorno di ordinaria continuità, ma è stata una doccia fredda quella degli ultimi dati Istat sull’occupazione, che mette in luce la fragilità della nostra crescita e la fatica di una ripresa dell’occupazione. Ma un pericolo ancora più grave è apparso alla ribalta: la pericolosa frattura tra giovani e adulti. Dal 2013 crescono in modo costante gli occupati di 50 anni e oltre: sono il 13,9% in più, 900 mila occupati in più tra gennaio 2013 e ottobre 2015.
Gli altri invece sono in calo, in particolare nella fascia 15-34 anni, il 6,3% in meno, una perdita di oltre 300 mila occupati da gennaio 2013.
Anche nella classe di età 25-34 anni nell’ultimo mese c’è stato un aumento della disoccupazione (+0,2%) e una diminuzione dell’occupazione (-0,2%). Ma che cosa sta succedendo? E perché i giovani non riescono a salire sulla giostra del lavoro? I motivi sono tanti. Innanzitutto la demografia e l’invecchiamento della popolazione (da gennaio 2013 a settembre 2015 gli over 50 aumentano del 4,7%, mentre calano le persone tra 15-34 anni). Poi la maggior partecipazione al mercato del lavoro degli over 50-55, a causa delle minori uscite per pensionamento dovute alla nuova normativa previdenziale. Il tasso di occupazione tra 50-64 anni è così cresciuto nell’ultimo triennio del 4,6%. Anche il rientro dei cassintegrati sposta il mix anagrafico a favore dei più anziani. E questo nonostante i venti di ripresa in cui si trovano diversi settori, con un paradosso: secondo l’ultimo dato Unioncamere ci sono quasi 80 mila profili professionali che le aziende cercano e non trovano e il gap si trova soprattutto nella Net economy e nell’industria 4.0.
Le ragioni stanno nell’inadeguatezza delle competenze soprattutto dei giovani diplomati, la cui formazione risulta insufficiente, anche perché le aziende cercano giovani che abbiano qualche esperienza. Sotto accusa anche la debolezza dei laureati (per i dottori in ingegneria la difficoltà di reperimento è del 23%). Nemmeno gli incentivi alle imprese che assumono servono a riequilibrare le sorti dei giovani. Il bonus assunzioni previsto da Garanzia giovani è stato usato solo da 15 mila imprese per una spesa di soli 52 milioni sui 177 previsti dalla misura. Ma anche il contratto a tutele crescenti denota una preferenza delle imprese per lavoratori maturi: se deve assumere, un imprenditore sceglie di usare il supersconto fino a 8 mila euro per tre anni per chiamare un lavoratore già esperto, piuttosto che un giovane da formare (si stima che gli under 29 assunti siano meno di un terzo).
Che fare? E come fare salire i giovani sulla giostra del lavoro? I rimedi sono a vasto raggio. «Le due misure per riconoscere che i giovani sono la priorità – spiega Gigi Petteni, segretario nazionale della Cisl – sono la flessibilità in uscita dal sistema previdenziale da parte degli adulti e la solidarietà espansiva tra giovani e meno giovani. E’ sempre più necessario innovare e ringiovanire le imprese, per questo servono strumenti contrattuali di tipo nuovo». «Le imprese oggi navigano ancora su cicli brevi – afferma Paolo Iacci, vicepresidente Aidp, l’Associazione dei direttori delle risorse umane – e vogliono gente pronta subito. Ci sono almeno 700 mila over 50-55 senza lavoro che per rientrare in azienda sono disposti ad accettare stipendi più bassi, pur di lavorare e mantenere i figli disoccupati. Le imprese lo sanno e li accolgono volentieri». Mentre altri puntano sul nuovo apprendistato, la cui sperimentazione parte a gennaio: «La strategia del governo – conclude Luigi Bobba, sottosegretario al ministero del Lavoro – è quella di migliorare le competenze dei giovani attraverso l’apprendistato di primo e terzo livello. E’ la nuova via italiana al sistema duale: la formazione sarà al 50% a scuola e al 50% nell’ambiente di lavoro, per rafforzare la qualificazione dei ragazzi, ridurne la dispersione scolastica e migliorare la loro occupabilità».

Repubblica 2.12.15
Soldi ai partiti, gruppi parlamentari costano più di 50 milioni l'anno
I bilanci dei gruppi parlamentari: 53,3 milioni di euro in un anno da Camera e Senato
Più il gruppo è grande, più sarà alto il contributo stanziato
Ne ha giovato il Misto dove gli iscritti sono aumentati grazie ai cambi di casacca: tra verdiniani, fittiani e civatiani a oggi circa 2 milioni di euro in più
Da inizio legislatura contributi per oltre 106 milioni
Perdono Fi, M5s e Lega. Come sono spesi?
Il 70% serve a pagare il personale che in alcuni casi supera il numero dei politici
di Michela Scacchioli
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http://www.repubblica.it/economia/2015/12/02/news/soldi_ai_partiti_i_bilanci_dei_gruppi_parlamentari-127978688/?ref=HRER1-1

Repubblica 2.12.15
Stabilità, pagamenti digitali anche per meno di un euro
Emendamento del Pd abolisce il tetto dei 30 euro e taglia le commissioni per i micropagamenti fino a cinque euro: in arrivo sanzioni per chi non accetterà la moneta digitale. In un anno il numero di Pos è salito del 20% a quota 1,8 milioni
di Giuliano Balestrieri
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http://www.repubblica.it/economia/2015/12/01/news/carte_di_credito_boccadutri-128501082/?ref=HREC1-1

Repubblica 2.12.15
Bruxelles.
La Commissione studia quote per ripartire i tre miliardi promessi alla Turchia per la gestione dei profughi
“Da Roma 281 milioni” ecco il conto che la Ue pagherà ad Ankara per gli aiuti ai migranti
di Andrea Bonanni

BRUXELLES Chi pagherà i tre miliardi di euro che l’Unione europea ha promesso alla Turchia? Al vertice di domenica scorsa i capi di governo si sono impegnati a contribuire, con un importo «iniziale » di tre miliardi, al mantenimento degli oltre due milioni di profughi, prevalentemente siriani, che hanno trovato rifugio oltre le frontiere turche. Dall’inizio della guerra civile in Siria, gli aiuti umanitari europei destinati alle vittime del conflitto sono stati pari a 3,6 miliardi di euro: 1,6 miliardi pagati dal bilancio Ue e 2 miliardi circa versati dai singoli stati membri. Nel suo complesso, l’Europa è di gran lunga il maggior contributore di aiuti umanitari nella regione. La decisione adottata domenica praticamente raddoppia gli stanziamenti finora versati.
Il problema che però non è stato risolto è come gestire questi soldi, e soprattutto come ripartirsi l’onere. Prima del vertice, la Commissione europea ha approvato una decisione dove fissa modalità e quote di contribuzione. Ma i governi, per ora, non l’hanno ancora approvata. Il documento andrà in discussione la prossima settimana, e sarà comunque la base su cui si dovrà trovare un’intesa.
Per prima cosa, i tre miliardi non saranno versati alla Turchia. La Commissione propone di creare una «facility», cioè in pratica un fondo su cui depositare la somma che verrà amministrata direttamente dagli europei e dovrà servire a finanziare sia gli interventi di emergenza, sia progetti di aiuto ai rifugiati e alle popolazioni che li ospitano. La facility sarà amministrata da un comitato composto da due rappresentanti della Commissione e da un rappresentante per ogni stato membro. Tuttavia sarà la Commissione ad avere l’ultima parola sia nella selezione dei programmi sia nella decisione riguardante gli interventi di urgenza.
Il problema più spinoso, naturalmente, è la ripartizione degli oneri di finanziamento. L’esecutivo comunitario è in grado di rastrellare, nelle pieghe del bilancio, mezzo miliardo di euro. I restanti due miliardi e mezzo, secondo Bruxelles, dovrebbero essere versati direttamente dagli stati membri. Il calcolo dei contributi è fatto in base al Pil di ciascun Paese. La Germania dovrebbe versare 534 milioni, la Gran Bretagna (che non ha voluto partecipare alla redistribuzione dei rifugiati già sul suolo europeo) 409, la Francia 386. Il contributo dell’Italia dovrebbe essere di 281 milioni di euro. Seguono la Spagna con 191 e l’Olanda con 117. Quando si sono visti presentare il conto, i governi si sono messi le mani nei capelli. E a poco è valsa l’assicurazione, data a voce da Juncker, che i contributi sarebbero scomputati dal calcolo del deficit e dunque non inciderebbero sul rispetto dei parametri di Maastricht.
Nella sua decisione la Commissione ricorda che in realtà il budget comunitario registra già un surplus di 2,3 miliardi di euro, dovuto alla riscossione di multe, di penali, di interessi sui prestiti e sui ritardi di pagamento. La somma potrebbe coprire quasi per intero il fabbisogno della facility. Tuttavia, secondo le attuali regole di bilancio, questo surplus dovrebbe essere ridistribuito agli stati membri sottraendolo dai contributi che dovranno versare l’anno prossimo.
Molti governi, compreso quello italiano, vorrebbero in realtà che il grosso dei tre miliardi venisse messo da Bruxelles, attingendo al bilancio della Ue. Ma una simile operazione costringerebbe la Commissione a tagliare altre voci di spesa, come i fondi agricoli o quelli per la coesione regionale. Con il risultato di una redistribuzione degli oneri che risulterebbe probabilmente più penalizzante per quei Paesi che ricevono maggiori finanziamenti dalla Ue. E’ dunque probabile che, alla fine, i criteri definiti dalla Commissione finiscano per essere approvati senza modifiche sostanziali.

La Stampa 2.12.15
L’Arabia mette a morte il poeta dei versetti “blasfemi”
Fayadh, artista palestinese di 32 anni, è stato accusato di “apostasia” da una corte saudita. Appelli di grazia dagli Usa alla Cisgiordania
di Maurizio Molinari
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http://www.lastampa.it/2015/12/02/esteri/larabia-mette-a-morte-il-poeta-dei-versetti-blasfemi-OmKPCmC1fHm0coPBvBFVeP/pagina.html

Corriere 2.12.15
Il salto di qualità del terrore praticato dall’isis
Gli attentati di Parigi hanno impresso un cambio di paradigma
L’influenza del Califfato è più estesa del previsto: sfrutta il nuovo nichilismo e i disastri post coloniali
La violenza non è più strategica (con un preciso obiettivo politico) ma sistemica
di Francesco Maria Greco

L a prima cosa che colpisce dopo gli attacchi di Parigi è la sbalorditiva rapidità con cui gli attentati hanno impresso un cambio di paradigma alle analisi più recenti sull’Isis ed evidenziato un suo salto di qualità nel pianificare e proiettare terrore a grande distanza . Fino a qualche mese fa era opinione comune, malgrado le dichiarazioni e le misure di cautela, che l’Isis non rappresentasse in fondo un pericolo esistenziale per l’Occidente e che il suo impatto sarebbe stato circoscritto alla sfera geografica musulmana. Nonostante le sue minacce di atti terroristici su larga scala contro i nostri Paesi, si ritenevano più probabili azioni perpetrate da lupi solitari come nel caso di Charlie Hebdo in gennaio o a Lione nel giugno scorso. Si pensava comunque che l’Isis, grazie alla sua consumata abilità comunicativa, tendesse ad attribuirsi la paternità di atti di violenza magari organizzati localmente e con un limitato raccordo con il Comando centrale. Si faceva un distinguo fra le capacità militari di tipo simmetrico a partire dalle prime vittorie nel giugno 2014 e una scarsa attitudine alla guerra asimmetrica a distanza, condotta finora da piccoli gruppi spontaneisti privi di una vera direzione strategica. Era stata già in sé un’amara sorpresa verificare come quel gruppo relativamente esiguo di militanti avesse sbaragliato l’esercito iracheno conquistando Mosul, seconda città del Paese, poi Tikrit e quindi occupando in Siria e nell’Iraq nordoccidentale un territorio vasto quanto la Gran Bretagna. Sembrava il preludio del disfacimento delle frontiere e degli Stati che videro la luce un secolo fa, la cui storia è stata contrassegnata perlopiù da regimi autocratici, economie disastrate, oppressione politica. E tuttavia si è continuato a ribadire che Isis andava realisticamente e semplicemente contenuto: colpisce oggi l’affermazione di Obama «il combattente riluttante» secondo cui l’Isis è una minaccia reale e la Nato e gli Usa devono agire per indebolirlo e distruggerlo. La lezione di Al Qaeda non è stata sufficiente: non bastarono i due grandi attentati del 1998 contro le ambasciate americane in Kenia e in Tanzania, ci volle l’attacco dell’11 Settembre per mobilitare gli Usa contro le roccaforti di Osama Bin Laden in Afghanistan e Pakistan.
Il secondo aspetto che emerge è l’acuirsi del dibattito fra chi sostiene che l’autoproclamato Califfato abbia vere radici nella tradizione musulmana e chi controbatte che ha solo sequestrato una religione pacifica e distorto il messaggio coranico. A parte la risposta di Thomas Friedman a chi lo accusava di islamofobia dopo l’attacco alle Torri Gemelle («non tutti i musulmani sono terroristi ma tutti i terroristi erano musulmani»), resta il fatto che una religione non può esser giudicata solo dai Testi ma dai comportamenti di tutti i suoi fedeli: dalle azioni, dalle affermazioni e dai silenzi. Le autorità francesi convivono con il terrorismo ininterrottamente dalla metà degli anni 90 per l’appoggio di Parigi al colpo di Stato algerino contro gli islamisti del Fis: l’antiterrorismo è diventato dunque una parte istituzionale dell’azione di governo alla stregua della lotta alla criminalità o ai disastri naturali. Eppure la Francia ha fallito nel contrastare una violenza che non è più strategica (con un preciso obiettivo politico) ma sistemica (sparare nel mucchio) e questo fallimento non è solo l’incapacità di scovare i potenziali assalitori ma tocca anche la comunicazione: nel contrasto fra chi demonizza l’Islam e chi vittimisticamente lo difende, i musulmani sono stati spesso dipinti come una «realtà speciale», o come mostri o come martiri. Il modello francese di integrazione ha funzionato solo sul piano legale, ma non sulla autopercezione dei musulmani: ci sono ancora troppi che non si considerano cittadini francesi a parte intera e si rifugiano nella violenza come terapia contro la delusione e la rabbia sociale. Ed è in questa idea della particolarità musulmana che il nichilismo della distruzione e della «bella morte» possono attecchire .

Repubblica 2.12.15
I muri della paura nell’Europa di Schengen
di Timothy Garton Ash

SORGONO muri in tutta Europa. In Ungheria hanno la forma fisica di recinzioni in rete metallica, filo spinato e lamette, un po’ come la vecchia Cortina di ferro. In Francia, Germania, Austria e Svezia i muri sono i controlli alle frontiere, momentaneamente ripristinati nello spazio senza confini di Schengen.
E ovunque in Europa sorgono muri mentali, sempre più alti ogni giorno che passa, cementati da un misto di paure — del tutto comprensibili dopo i massacri di Parigi da gente che poteva circolare a suo piacimento tra Francia e Belgio — e di beceri pregiudizi alimentati da politici xenofobi e giornalisti irresponsabili.
Nel 2015 assistiamo a un 1989 alla rovescia. Non dimentichiamo che la demolizione fisica della Cortina di ferro iniziò con il taglio della recinzione di filo spinato che separava l’Ungheria dall’Austria. Ora è l’Ungheria che per prima ha eretto nuove recinzioni ed è il suo premier, Viktor Orbán, il primo ad alimentare i pregiudizi. Bisogna chiudere le porte ai migranti musulmani, ha detto quest’autunno, «per mantenere l’Europa cristiana». Si unisce al coro anche una buona cristiana dello stampo di Marine le Pen, la rappresentante del Front National che detta il passo della politica francese.
Molti europei ora sostengono che i loro paesi devono ripristinare i controlli alle frontiere, anche all’interno dell’area Schengen. Lasciando perdere i dubbi circa l’efficacia di un simile atto sotto il profilo della sicurezza, chiudendo le frontiere interne all’Europa si rischia di distruggere ciò che gli europei apprezzano di più dell’Unione. Non è solo retorica. Nell’ultimo sondaggio Eurobarometer, condotto in tutti i paesi UE, alla domanda “Qual è secondo voi il maggior beneficio derivante dall’Unione Europea”, il 57% degli intervistati ha risposto “la libera circolazione delle persone, dei beni e dei servizi”.
Si è tornati ai muri per tre ordini di motivi. Innanzitutto, in paesi come la Gran Bretagna ma anche in altre parti dell’Europa del nord, hanno influito le pure e semplici dimensioni della circolazione di persone entro i confini dell’Ue. Gli est europei sono arrivati soprattutto dopo il grande allargamento del 2004, simbolicamente incarnato dall’”idraulico polacco”; a loro si è aggiunto lo stuolo degli immigrati dall’Europa meridionale, da quando la crisi dell’Eurozona ha spinto laureati spagnoli, portoghesi e greci a spostarsi a Londra o a Berlino per fare i camerieri.
Il secondo motivo è la crisi dei profughi. Secondo le stime Unhcr (Agenzia Onu per i rifugiati) al 19 novembre erano 850.571 “i profughi e i migranti” giunti quest’anno via mare in Europa, altri 3.485 sarebbero morti o dispersi. Il Mediterraneo è diventato orizzonte di speranza per i disperati e una tomba d’acqua.
Poco più del 50% degli arrivati via mare proviene dalla Siria, il 20% dall’Afghanistan. Moltiquelli che ce la fanno sono profughi nella piena accezione del termine, ossia nutrono “fondato timore di persecuzione” nel proprio paese. Ma, come indica l’Unhcr, tra loro inevitabilmente c’è chi fugge dalle intollerabili condizioni materiali degli stati falliti.
Poi ci sono i terroristi islamici, ultimamente dediti a falciare innocenti spettatori di concerti e avventori dei bistrot parigini. In gran parte sono cresciuti in Europa anche se alcuni apprendono il mestiere di assassini in Siria o in Afghanistan. Almeno uno dei killer di Parigi probabilmente si è intrufolato nell’Europa senza confini di Schengen come “profugo” (reale o presunto) con passaporto siriano. Per certo i killer potevano spostarsi liberamente tra Parigi e Bruxelles.
Così nell’attuale bouillabaisse dei timori europei, mescolata dai demagoghi, tutto si confonde: il migrante regolare, cittadino dell’Unione; il migrante irregolare, che viene da fuori; il migrante mezzo migrante economico e mezzo rifugiato; il profugo di guerra dalla Siria; il classico rifugiato politico dall’Eritrea; il musulmano; il terrorista. In un certo senso si passa, senza soluzione di continuità, dall’idraulico polacco al kamikaze siriano.
Nel frattempo il nuovo governo dell’idraulico polacco, composto principalmente da buoni cristiani, si è allineato a Ungheria e Slovacchia dichiarando che non accoglierà immigrati musulmani. Niente samaritani, grazie, siamo cristiani. Oltre al divario tra il nord e il sud d’Europa creato dalla crisi dell’Eurozona, emerge una nuova divisione tra Est e Ovest. L’Europa dell’Est rifiuta la solidarietà così spesso richiesta ai partner europei sotto altri aspetti. L’Europa sud orientale è tra due fuochi. Presto potrebbe succedere qualcosa di molto grave nei Balcani se non si renderanno meno permeabili i confini esterni dell’Ue soprattutto per chi proviene dalla Turchia, mentre il Nord Europa dice “basta”.
Angela Merkel ha detto una volta che per far apprezzare ai giovani la libertà di cui gode l’Europa aperta si dovrebbero chiudere le frontiere nazionali per un paio di giorni, e la cancelliera sa bene cosa significhi vivere dietro una Cortina di ferro. Beh, è probabile che ci tocchi fare questo esperimento, in parte proprio per il generosissimo errore di calcolo fatto dalla Merkel nel dichiarare benaccetti in Germania tutti i rifugiati senza prima essersi assicurata che gli altri Paesi europei avrebbero seguito il suo esempio. Se l’esperimento avrà o meno l’effetto desiderato è un’altra questione. Per il momento quello che si può dire con certezza è che se in precedenza l’Europa aveva fama di continente in cui i muri cadevano, oggi è il continente in cui tornano a sorgere.
Traduzione di Emilia Benghi

Repubblica 2.12.15
Dio salvi l’inglese dalla povertà lessicale
Ma anche l’italiano
di Stefano Bartezzaghi

Chi la ama è preoccupato: la lingua inglese si smorza, si depaupera, sfiorisce. Anche chi ama la lingua italiana si cruccia per ragioni analoghe. Ma noi almeno abbiamo l’alibi della lingua inglese medesima, che contamina la nostra con il suo imperio culturale. Gli inglesi questo alibi non possono certo accamparlo: potrebbe forse la lingua inglese contaminare sé stessa?
Parrebbe un modo assurdo di vedere alla faccenda, ma qualche volta le spiegazioni assurde sono le più adeguate alle realtà paradossali. Una spiegazione assurdissima dell’egemonia linguistica e culturale della lingua inglese sul mondo è quella che attribuisce la forza di quell’idioma alla sua “semplicità”. Semplice, l’inglese? Ma proprio no. Anche lasciando da parte la fonologia, basta avere impugnato una volta un dizionario dell’inglese standard, con le sole forme più comuni, per rendersi conto che il patrimonio lessicale dell’inglese è sterminato, e intricatissimo. Una grande parte dei verbi, e praticamente la totalità di quelli più semplici, non solo dispone di una quantità di accezioni diverse, ma poi ha le forme frasali ( to get in, to get out, to get off, to get up), da ognuna delle quali sboccia un altro alberello di accezioni e sfumature, spesso senza corrispondenze dirette in italiano. Ogni volta che leggete un libro scritto originariamente in inglese, e bene, e tradotto in un italiano ricco e scorrevole, andate a vedere come si chiama chi l’ha tradotto e tributate un omaggio perlomeno mentale al suo valore e alla sua dedizione.
Se l’inglese domina il mondo è per ragioni extralinguistiche, cioè economiche. La lingua viaggia a rimorchio dei soldi, e degli eserciti, e ai dominati tocca impararla. Cioè, mescolarla agli idiomi locali, con i loro sistemi fonetici, le loro inflessioni, i loro modi di vedere e categorizzare il mondo. Come a Napoli gli shoe- shine sono diventati “sciuscià”, così in tutto il mondo l’inglese non è più inglese. Oltreoceano diventa l’americano, che ne è una variante per certi aspetti già significativa (del resto, neppure l’italiano svizzero non è uguale all’italiano); in combinazione con altre culture e dialetti locali produce il pidgin. A ogni passaggio si semplifica e si impregna di altre sonorità; le parole impiegate sono una percentuale minima che nel Queen English, la sintassi diventa elementare. Su tutta questa varietà galleggia quella di maggior prestigio: l’International English, che è la varietà parlata nei congressi e dei consessi di alto livello, ed è assai semplificata pure quella. È per questo che si può sostenere che l’inglese contamina l’inglese. È un’assurdità, ma è un’assurdità illuminante: perché diventando la seconda lingua della grande parte del mondo, e spesso lingua di prestigio più che quella nazionale, è condannata a evolversi ad altissima velocità.
È come dire che la forbitezza non la vuole più nessuno? Non serve più a nulla? Purtroppo il problema non è costituito dal preziosismo, a cui tutti rinunciamo volentieri. Tra l’altro già scrivendo e parlando in contesti che fino a trent’anni fa non imponevano nessuna limitazione linguistica (come università e editoria a vocazione non strettamente popolare) ci si è resi conto tutti che non si poteva più fare conto su un alto livello di competenza passiva (cioè di ascolto e lettura). Beninteso, anche nelle università degli anni Ottanta gli studenti non erano certo delle cime, con sparute eccezioni: ma allora si sentivano loro dalla parte del torto. Ai libri per l’università oggi è richiesta una grande mediazione e, salvo settori specializzatissimi, sono libri che si direbbero divulgativi. Ma si punta sul fatto che elevando il livello medio della popolazione, tramite appunto divulgazione e università di massa, emergeranno studenti appassionati e disposti a lavorare duro su testi che lo richiedono e saranno in numero maggiore, non minore. Così come è sicuro che dalla grande miscelazione linguistica dell’inglese globale siano emersi grandi scrittori, critici, e (qualsiasi attività svolgano) fruitori e conoscitori della lingua di Shakespeare.
Non si tratta dunque di scegliere fra un inglese dry e uno aromatico, fra Ernest Hemingway e il Tristram Shandy.
Come utenti sia attivi sia passivi di una lingua, la capacità di accedere a ciascuno dei suoi registri è fondamentale ed è per questo che occorre resistere alle spinte della semplificazione e della rinuncia, anche quando appaiono di senso comune. Gli studenti che richiedono alle università italiane corsi di laurea direttamente e interamente in inglese non stanno scegliendo una lingua potente (l’inglese) contro una debole (l’italiano): al contrario, stanno scegliendo una lingua ricca (il loro italiano di madrelingua) contro il povero inglese che fatalmente intercorrerà fra loro e i loro docenti. E alla fine, difendendo l’italiano dall’eccessiva penetrazione (anche dove è inutile) dell’inglese, si difende persino l’inglese da sé stesso.

Repubblica 2.12.15
Scuole e università anglosassoni invitano a scrivere in modo forbito E c’è chi “corregge” Hemingway
Povero inglese la battaglia per arricchire la lingua
di Enrico Franceschini

LONDRA Ci sono tanti modi di dire la parola “dire”: affermare, dichiarare, sostenere, enunciare, proferire, pronunciare. Una scuola canadese ne ha trovati 397 e ha proibito ai suoi alunni di usare il capostipite della categoria: “to say”, dire appunto, giudicato troppo semplice e banale. Mettere al bando le “parole morte”, perché ripetute troppo e ormai prive di significato, è l’ultima moda del sistema scolastico anglosassone. Scuole elementari e medie sulle due rive dell’Atlantico lanciano il tam-tam dei termini da buttare: “buono, cattivo, carino, okay,
divertente, cosa”. Qualche insegnante dà l’insufficienza a chi le scrive nei temi. Banish boring words (Vietate le parole noiose), manuale scritto da un’insegnante della California, è diventato un bestseller. Ieri l’iniziativa è finita in prima pagina sul Wall Street Journal con un ironico titolo: “Usate parole più espressive! – sbraitano, implorano, scongiurano gli insegnanti”, qualunque verbo tranne “dicono”. E l’iniziativa rimbalza sul web, con siti che inneggiano alla campagna per una lingua più ricca. Come reazione a quella cifrata di sms e email, ormai fatta di faccine, simboli e abbreviazioni, il fenomeno è comprensibile. Ma non tutti sono d’accordo. «Come si può definire morta una parola che tutti usano?», si domanda Shekema Holmes, prof di lettere ad Atlanta, «qualche volta il modo migliore per dire “dire” è proprio dire». Ernest Hemingway, che nei dialoghi dei romanzi usava una sfilza di “lui disse”, sarebbe della stessa opinione. La moda della terminologia difficile travolge anche lui: uno dei compiti assegnati dagli insegnanti è riscrivere Addio alle armi correggendo frasi come “l’auto ripartì a gran velocità” con “a una velocità superiore”. Se l’intento è arricchire il vocabolario dei piccoli, può anche funzionare. Ma è proprio utile, si chiede il quotidiano americano, insegnare tre aggettivi per ogni soggetto e ciascuno più inconsueto dell’altro? Una scrittura barocca non è necessariamente più efficace. Come sapeva Hemingway, quando ammoniva i suoi epigoni: Kill all your darlings, ovvero elimina gli aggettivi e le costruzioni di cui vai più fiero. Solo allora il tuo scritto sarà perfetto.

Repubblica 2.12.15
L’enigma Dossetti così il monaco scoprì buddismo e induismo
di Filippo Ceccarelli

Ecumenismo e attitudine al dialogo Esce una raccolta di scritti politici del padre costituente
Più passa il tempo e più alcuni personaggi che sbrigativamente parevano già belli e dimenticati, riservano in realtà sorprese e addirittura lezioni per il presente. Giuseppe Dossetti, per esempio, che gli amici chiamavano “Pippo”, è una di queste figure; e la meraviglia consiste nell’apprendere, per giunta in una interessante raccolta di scritti politici, La Passione e il Disincanto (edizioni Il Settimo Libro), che nelle sue tre, quattro o forse più vite — professorino proto-democristiano, padre costituente, oppositore di De Gasperi, poi monaco, padre conciliare, biblista ed eremita — fece anche in tempo a cercare punti di incontro tra il cristianesimo, l’induismo e il buddismo.
Non si tratta di un’assoluta rivelazione, l’ecumenismo e l’attitudine al dialogo sono in effetti una costante dell’eredità per così dire ecclesiale di Dossetti. Ma certo fa riflettere la circostanza che in questa ricerca intorno delle religioni dell’estremo oriente gli si rivelò di grande aiuto quella stessa donna, suor Cecilia Impera, che tanti anni prima, quando nemmeno lei aveva ancora preso i voti, era stata la sua segretaria.
Scrive dunque Giuseppe Sangiorgi nella ispirata prefazione a questa antologia di articoli della rivista Cronache sociali che al momento di tagliare i ponti con la politica, nel 1955, Dossetti volle bruciare tutte le sue carte. Fu la futura suor Cecilia a occuparsi per due giorni del rogo, in una caldaia dello studio di via San Vitale a Bologna. Romana, come allora si chiamava, ebbe qualche comprensibile scrupolo. Ma Dossetti rassicurò anche lei che di “cupio dissolvi” certamente si trattava, ma in nome di un puro e ardente misticismo.
Non così diverso, viene da pensare, da quello che in seguito portò la donna a studiare sul campo l’induismo vivendo per 15 anni in India, dove pure accompagnò Dossetti in un viaggio di studio — giacché “studiare” fu per lui fino all’ultimo la pre-condizione di ogni vitale slancio ecumenico.
Così molti dei fili che in una biografia ricca e complessa sembravano apparentemente recisi, oppure contraddetti, per non dire dimenticati o addirittura rimossi, con il trascorrere degli anni si scoprono intrecciati in un unico ordito che tiene assieme cielo e terra, coscienza e conoscenza, fede e partecipazione.
E la lontananza aiuta semmai a riconoscere non solo l’originalità di quel fenomeno che il suo stesso fondatore volle battezzare — in un promemoria del 1951 destinato a Rumor — con il suo stesso cognome: “dossettismo”; ma anche il valore e lo spessore del gruppo che di quella rivista, tanto povera nella sua forma quanto fertile di argomenti, fece parte: Fanfani, Lazzati, La Pira, Moro, Ardigò, Baget Bozzo, Leopoldo Elia.
E se la rilettura di Cronache sociali conferma ciò che Sangiorgi definisce “l’enigma Dossetti”, è anche vero che il destino dei grandi sconfitti si chiarisce secondo tempi, modi, codici e significati che partono dall’avventura umana per arrivare là dove in genere l’uomo si ferma per cogliere il senso delle cose ultime.

La Stampa 2.12.15
Rosa Parks e gli altri, una battaglia lunga 60 anni per i diritti degli afro americani
Il 1°dicembre 1955 il gesto che innescò le battaglie per l’emancipazione nera. Cosa resta di quelle lotte
qui
http://www.lastampa.it/2015/12/01/esteri/speciali/neri-d-america/rosa-parks-e-quel-viaggio-in-bus-che-dura-da-anni-X0zYAhC4dcaARpLpSSEI2K/pagina.html

La Stampa 2.12.15
C’era una volta Cenerentola splatter
Torna la prima versione delleFiabedei fratelli Grimm E si scoprono dettagli horror, in seguito edulcorati per i bambini della nuova borghesia tedesca in ascesa
di Ernesto Ferrero

Oggi che l’idea dell’autore demiurgo, unico e inimitabile, viene messa in ombra dal nuovo modello social di una collettività che concorre all’elaborazione del testo in modo quasi assembleare, fa un certo effetto scoprire che l’intento di pubblicare un libro il cui autore era semplicemente il popolo risale agli inizi dell’Ottocento, e si deve a quelli che dovevano poi diventare un
brand mondiale della fiaba: i fratelli Grimm.
Figli di un avvocato dell’Assia, l’austero Jacob e il gaio e socievole Wilhelm, diversi e complementari, anzi inseparabili come due siamesi, infaticabili topi di biblioteca e patrioti, si ripromettevano nientemeno di fondare l’identità culturale della Germania, frammentata in decine di staterelli, traumatizzata da Napoleone, minacciata dall’egemonia prussiana. L’imperatore aveva preso a modello l’antichità classica? I romantici tedeschi si volevano costituire una loro antichità, quella del Medioevo, come deposito di valori fondativi: la voce del popolo come voce di Dio. Il maestro dei Grimm, l’illustre giurista Savigny, sosteneva non a caso che non si può comprendere il presente senza conoscere il passato.
Un editing di 45 anni
Non inventavano, i fratelli: raccoglievano con scrupolo scientifico le voci contadine e borghesi che tramandavano l’immenso patrimonio di canti popolari, proverbi e fiabe come un tesoro in cui si annidava l’anima profonda del Paese: semplice, saggia, profonda. Non volevano affermare la superiorità di una razza, ma valorizzare i «prodotti della terra», un capitale condiviso di esperienze raccontate in una lingua varia, articolata, plurale. Prima dell’unità politica, bisogna costruire quella culturale. Una bella intuizione, che varrebbe anche per l’incerta, balbettante Europa di oggi.
Le Fiabe per bambini e famiglie, pubblicate in due tomi nel 1812-15, sono subito un successo, prontamente imitato, ripreso, adattato un po’ ovunque. I bambini erano sempre rimasti un po’ esclusi dalle narrazioni come entità sostanzialmente marginali. Rappresentavano un problema di bocche da sfamare, o di lavoro minorile da sfruttare. Adesso non solo diventavano i protagonisti di tante storie, tenaci, astuti, capaci di tener testa al mondo dei grandi, sempre un po’ rozzi e bonaccioni, di compiere meritate ascese sociali. Diventavano un mercato assai appetibile. I Grimm non si fermarono certo. Continuarono a raccogliere materiali, a sottoporre le fiabe già pubblicate a un editing continuo, che durò ben 45 anni. Scoprivano il marketing, l’opportunità di rispondere alle sempre mutevoli esigenze del mercato.
Pasti cannibalici
Nella neonata Germania unita del 1871 il loro diventava il libro nazionale per eccellenza, immancabile in ogni biblioteca famigliare. Sono ben sei le edizioni che portano a quella definitiva del 1857, in cui i due poligrafi si dimostrano assai abili a adeguarsi a quello che ritengono culturalmente e politicamente corretto, ma anche a abbellire, a integrare i canovacci della tradizione orale con qualche optional gradevole. Meno schizzi di sangue e effetti splatter, meno echi di un Medioevo un po’ barbarico e ferino, meno particolari trucibaldi. Ai piccoli lettori della nuova borghesia emergente si doveva pure qualche riguardo.
Ce ne accorgiamo con divertita sorpresa adesso che l’editore Donzelli arricchisce il suo già benemerito corpus di fiabe d’ogni tempo e Paese (in cui spiccano i nostri Pitrè e Capuana) proprio pubblicando integralmente il ruspante Ur-Grimm originale del 1812-15 per le attente cure di Camilla Miglio, e con 24 tavole a colori di Fabian Negrin (Tutte le fiabe, pp. XXXVI-670, € 35).
Prima sorpresa: le matrigne cattive di Biancaneve o di Hänsel e Gretel non sono tali, come avevamo sempre creduto, ma madri snaturate, ciò che le rende ancora più riprovevoli. Quella di Biancaneve è invidiosa della bellezza della figlia, che a soli sette anni è già radiosa, tanto da ordinare al cacciatore di ucciderla e portarle indietro polmoni e fegato: se li sarebbe cucinati di gusto con sale e pepe (macabro dettaglio che ovviamente sparirà). Quanto alla madre dei fratellini, non sapendo come nutrirli, non si perita di spedirli per due volte nel bosco, incurante dei dubbi e dei rimorsi del marito.
Il principe necrofilo
Ci sono altri dettagli perturbanti, nella Biancaneve del 1812. Il principe necrofilo si fa consegnare dai sette nani la bara di cristallo in cui avevano rinchiuso la loro amata badante, e se la porta al castello, dove non si stanca di rimirarsela notte e giorno. I servi, seccati di dover accudire tutto il giorno la defunta, la prendono letteralmente a calci. E così, per una fiabesca eterogenesi dei fini, le fanno risputare il pezzetto di mela avvelenata che le era rimasto in gola, e dunque risvegliare.
La prima Cappuccetto Rosso è una che si fa abbindolare dal Lupo con colpevole incoscienza, e invece di andare dalla nonna si distrae con i fiori del bosco. Raperenzolo, che a onta del nome è la più bella bambina del mondo, rinchiusa in una torre da una fata malvagia vi fa salire quotidianamente il bel principe sciogliendo le sue lunghe trecce. «I due se la spassarono per un bel po’», fino a quando la fanciulla ha la faccia tosta di chiedere alla fata come mai i vestiti le si fanno sempre più stretti e non le entrano più. Cacciata in un deserto, partorisce due gemelli.
Dalla Cina alla Germania
Ma è anche vero che i Grimm, quando devono cucinare una fiaba che appartiene ad altre tradizioni e magari viene di lontano, dalla Francia o addirittura dalla Cina, come Cenerentola (il che spiegherebbe l’ossessione dei piedi piccoli), finiscono per lavorarla alla tedesca, cioè inserendo nell’ultima stesura i particolari horror cari alla loro giovinezza. Non spariscono dal racconto iniziale solo la carrozza con i sei cavalli bianchi bardati e piumati e il lacchè in livrea azzurra, che davano al viaggio verso corte una confortevole aria disneyana. Fanno accecare le due sorellastre, che già avevano cercato di entrare nella scarpina (d’oro e non di cristallo come in Perrault) tagliandosi dita e pezzi di calcagno, da quelle stesse provvide colombe che avevano presieduto alla trasformazione della ex servetta fuligginosa.
Forse sapevano, i due sagaci fratelli, che nei corsi e ricorsi della storia l’horror finisce sempre per vincere.

Corriere 2.12.15
Nabokov contro Dostoevskij
Il creatore di «Lolita» tenne negli atenei americani una serie di lezioni sulla letteratura russa analizzando i testi di sei colleghi
Il migliore è Tolstoj, mentre lo scrittore di «Delitto e castigo» è mediocre
di Raffaele La Capria

Giudizi severi
Negli anni della guerra fredda un docente esule e i suoi commenti: «L’idiota», «I demoni», «I fratelli Karamazov» gli sembrano libri pieni di difetti strutturali, scritti in fretta e in una situazione di stress
Lodi e meriti
Al contrario l’arte tolstojana è furiosamente luminosa. «Anna Karenina» è immortale, la sua eroina non è Emma Bovary, una sognatrice di provincia, ma una donna che dona la sua vita. E «Guerra e pace» è immenso

Prima del successo mondiale di Lolita, che gli diede l’indipendenza economica, il grande scrittore Vladimir Nabokov, emigrato in America nel 1940, insegnò letteratura russa nelle università americane. Quelle lezioni non compiutamente elaborate e spesso in forma di appunti, furono raccolte in un volume che poi Garzanti nel 1987 ha pubblicato nella sua collezione di Saggi Blu col titolo appunto di Lezioni di letteratura russa . Rivolte com’erano a studenti americani che avevano poca familiarità con gli autori in questione e li conoscevano soltanto in traduzioni non sempre perfette, queste lezioni sono accompagnate da lunghe citazioni di brani tratti dalle opere per dare direttamente agli studenti un’idea dei testi originali. La forte personalità di Nabokov dà alle sue lezioni un tono particolare che, più che a teorie critiche, si affida a quello che lo scrittore riteneva il «principio delle qualità artistiche». Cercando cioè di dare informazioni esatte su quei «particolari e combinazioni di particolari che fanno scoccare la scintilla senza la quale un libro è inerte». Con questo criterio vengono analizzate da Nabokov le opere di sei scrittori: Gogol’, Turgenev, Dostoevskij, Tolstoj, Cechov, Gor’kij, che fanno parte del meraviglioso canone russo. Di loro parla Nabokov con ammirazione ma senza soggezione alcuna, li tratta alla pari, ma senza presunzione. Partecipa del loro travaglio artistico, si introduce nel loro processo creativo, a volte con garbo li riprende, altre volte senza garbo (come fa con Dostoevskij e con Gor’kij) ne sottolinea qualche errore oppure li applaude entusiasta. Sembra quasi che la sua vecchia passione di cacciatore di farfalle si rinnovi mentre legge i suoi autori e ne sceglie le pagine per lui più significative, ne scopre la bellezza nascosta in una frase, in un’osservazione, in un dettaglio.
Altrettanto decise, e a volte incomprensibilmente aspre, le sue idiosincrasie. La vittima più nobile delle sue insofferenze è Dostoevskij. Tra lui e Dostoevskij c’è proprio una totale incompatibilità, che arriva fino a fargli considerare l’autore de I fratelli Karamazov, di Delitto e castigo, de I demoni, lui e i suoi personaggi, dei nevropatici prigionieri delle proprie idee sballate e delle proprie confuse ossessioni. Io credo che Nabokov riconoscesse la grandezza di Dostoevskij, ma non l’amasse, perché non solo in Dostoevskij, ma in ogni scrittore, la predica ideologica lo disgustava. Lui preferiva «l’estro artistico» anche se folle di Gogol’, la pacata ma artisticamente rivoluzionaria naturalezza di Cechov, l’adesione alla profonda verità della vita che Tolstoj trasfonde nei propri personaggi, e Anna Karenina gli sembra una delle migliori storie d’amore della letteratura mondiale.
Ma percorriamo adesso i vari saggi da Nabokov dedicati a quella mezza dozzina di grandi maestri della prosa che quando arrivarono in blocco negli altri Paesi europei provocarono insieme sconcerto e ammirazione.
Virginia Woolf parla di «tumulto del pensiero» e scopre che il personaggio principale di questa letteratura è l’anima, quell’anima che avendo poco senso dell’umorismo e nessuno della commedia è solo una vaga connessione con l’intelletto, informe, confusa, ma è chiaro che in lei la sorpresa e l’ammirazione prevalgono. Henry James deplorava la mancanza di forma, Joseph Conrad scrisse di non avere una grande opinione di Anna Karenina, e Nabokov scrive: «Non perdonerò mai a Conrad questa battuta». Insomma «il punto di vista russo» sconvolse la compassata mentalità inglese e anche la sua idea di letteratura, ma le rivelò «un nuovo panorama della mente umana».
Ora, tornando a quella «mezza dozzina di maestri della prosa» Nabokov afferma: «Lasciando da parte Puškin e Lermontov, possiamo elencare i grandi prosatori messi in quest’ordine di grandezza: primo Tolstoj, secondo Gogol’, terzo Cechov, quarto Turgenev». E aggiunge ironico che è come dare i voti ai compiti in classe, e che certo Dostoevskij sta aspettando per chiedergli ragione dei suoi bassi voti. Ricordo che Nabokov diceva questo negli anni ’50, anni della guerra fredda, quando l’ideologia inquinava non solo le anime ma anche la letteratura, e questo spiega l’atteggiamento a volte troppo severo di Nabokov verso gli autori dove il tratto ideologico gli appariva più forte.
Per questo lui ama tanto Gogol’ e gli dedica un saggio entusiasta: «Se vi interessano le idee, i fatti, i messaggi, state lontani da Gogol’». E poi: «La sua opera, come tutte le grandi imprese letterarie, è un fenomeno di linguaggio, non di idee». Solo il sano scrittore di second’ordine appare al grato lettore un amico vecchio e saggio che gli tiene compagnia. Gogol’ era invece una strana creatura, quando si lasciava andare allegramente sul bordo del proprio abisso personale diventava «il più grande artista che la Russia abbia prodotto». Il suo libro sulle anime morte è «un incubo caleidoscopico», il meraviglioso racconto Il cappotto è un incubo grottesco e sinistro che scava buchi neri nello scialbo tessuto della vita. Datemi il lettore creativo, questo è un racconto per lui. Con Le anime morte Gogol’ ha scritto uno straordinario poema epico. Poema, si badi bene. Sono queste le opinioni di Nabokov.
Quando passa da Gogol’ a Turgenev, Nabokov è più tiepido. Riconosce in lui i segni della grande letteratura russa, ma Turgenev più che grande è «piacevole». Comunque Padri e figli è uno dei più brillanti romanzi dell’Ottocento, e non è un riconoscimento da poco. Per Nabokov Turgenev è un artista di prim’ordine, ma quel «piacevole» resta impresso come una limitazione gentile ma non trascurabile.
E arriviamo a Dostoevskij: «La mia posizione su Dostoevskij è curiosa e difficile», questo è l’inizio, e subito dopo, tanto per esser preciso, Nabokov osa scrivere: «Dal punto di vista dell’estro artistico Dostoevskij non è un grande scrittore, ma è piuttosto mediocre». Non è un po’ troppo definire Dostoevskij mediocre? Nabokov se lo può permettere? A lui sembra «incredibilmente banale» in Delitto e castigo la storia della prostituta virtuosa che redime Raskolnikov. Lo stesso Raskolnikov gli sembra l’autore di un delitto «stupido e inumano», commesso da un nevrotico dalle idee curiosamente fasciste che ha esposte in un articolo di giornale. Da queste idee è stato spinto a uccidere? Per quanto riguarda la sua redenzione, a Nabokov non piace «il vezzo di arrivare peccando a Gesù», e nemmeno la morbosità spirituale o «la gongolante pietà per la gente, per gli umiliati e offesi».
Insomma lui riconosce di non aver orecchio per la musica e similmente non aver orecchio per Dostoevskij, e non lo considera un grande scrittore nel senso in cui lo sono Puškin, Tolstoj e Cechov. Questo lo avevamo capito, si capisce meno il fatto che per Nabokov il miglior libro di Dostoevskij sia Il sosia, mentre L’idiota, I demoni, I fratelli Karamazov gli sembrano grandi libri «scritti in fretta e in una situazione di stress», pieni di difetti strutturali, i cui personaggi sono singolari e affascinanti fantocci immersi nel flusso del movimento delle idee dell’autore. E poi si sentono in questi romanzi le influenze della narrativa sentimentale e «gotico occidentale (Richardson, Rousseau, Sue, Dickens) associate a una religione della compassione che sconfina nel sentimentalismo melodrammatico». E ci fermiamo qui, convinti che l’aristocratico Nabokov e il povero Dostoevskij siano assolutamente inconciliabili.
È il conte Leone, Tolstoj, il più grande di tutti e il più amato, lo scrittore dall’arte potente e «furiosamente luminosa». Tra l’altro il mondo di Tolstoj era quello cui apparteneva la famiglia di Nabokov, un mondo scomparso, di cui, esule in America, egli sente ancora forte la nostalgia. Ed è Tolstoj che scrive «l’immenso Guerra e pace e l’immortale Anna Karenina» . L’asceta che era in lui desiderava seguire con lo stesso ardore con cui il libertino anch’esso in lui desiderava i piaceri urbani della carne. Nabokov si domanda: «Che importanza hanno le sue opinioni etiche di fronte a questo o quel brano immaginativo di uno qualsiasi dei suoi romanzi?». E tuttavia quando inizia a raccontare Anna Karenina, ci avverte che la sua trama è un «intreccio morale» dove le storie parallele di Anna e Vronskij e di Kitty e Levin si riferiscono la prima a un amore carnale, condannato perciò a finire tragicamente col suicidio di Anna, la seconda a un amore che si fonda su una concezione metafisica e non soltanto fisica, che corrisponde all’ideale religioso di Tolstoj. Un elemento importante della narrazione tolstojana è il tempo, perché la sua scrittura procede di pari passo con le nostre pulsazioni. C’è il tempo di Proust o il tempo di Joyce che procedono più lenti o più veloci del tempo del lettore; quello di Tolstoj è il tempo medio comune, quello che corrisponde al pendolo di ognuno, il tempo normale di ogni vita. Inoltre il flusso di coscienza o monologo interiore è un metodo espressivo inventato da Tolstoj molto tempo prima di Joyce, e di Anna Karenina seguiamo i pensieri, il flusso della sua coscienza attraverso il suo silenzioso monologo interiore. La prosa di Tolstoj non è semplice e diretta come può apparire per la sua somiglianza con la vita, è invece complessa e attentissima ai dettagli, ai gesti, alla presenza di un oggetto, è una prosa che cerca non la verità, ma la luce interiore della verità, e a Tolstoj «accadeva di trovarla in sé, nello splendore della propria immaginazione creativa». Anna Karenina non è Emma Bovary, una sognatrice di provincia, il bello di Anna è che lei dona a Vronskij l’intera vita, per amore lei sfida le convenzioni sociali e «sostiene l’urto della collera della società». Vronskij «è un uomo mondano», è diverso da lei anche se l’ama intensamente.
Tutto questo e altro ci dice Nabokov, facendo l’analisi di questo romanzo per far capire agli studenti americani la grandezza e l’unicità della narrativa tolstojana. Non si sofferma sugli altri romanzi di Tolstoj perché non previsti nel suo programma, fa però un’eccezione per La morte di Ivan Il’ic, che secondo Nabokov non è il racconto della sua morte, ma della sua vita rivisitata al momento della fine. La morte determina uno straordinario cambiamento del suo punto di vista: «E se la mia vita fosse stata tutta sbagliata?», si domanda Ivan Il’ic. Ed è questo il vero tema del racconto.
Segue la lezione su Cechov, che secondo Nabokov «è stato ingiustamente paragonato a quello scrittore francese di secondo piano che è Maupassant». I due hanno in comune una sola cosa, «non potevano permettersi di tirare in lungo», ma la scrittura di Cechov ha in più una gentilezza che permea tutti i suoi racconti. Dopo una breve introduzione biografica, Nabokov avverte: «Ci sono libri per persone spiritose, vale a dire che solo un lettore con il senso dell’umorismo può realmente coglierne la tristezza». Per Cechov le cose sono insieme buffe e tristi, «ma non potete accorgervi della loro tristezza se non cogliendone la buffoneria». Cechov riesce a trasmettere una sensazione di bellezza artistica assai più di molti scrittori convinti di sapere che cosa sia una prosa ricca e bella. Nonostante il grigiore delle vite da lui create nei suoi racconti «il semplice fatto che questi uomini siano vissuti e probabilmente continuino in qualche modo a vivere in qualche angolo della sordida e spietata Russia di oggi, è una promessa di cose migliori per il futuro del mondo», dice Nabokov, e allude alla Russia ancora in quegli anni sotto il regime staliniano. E dopo un’analisi del racconto La signora col cagnolino, che colloca Cechov al livello più alto tra i narratori russi, quello di Gogol’ e di Tolstoj, Nabokov conclude: «Io raccomando con tutto il cuore di prendere in mano il più spesso possibile i libri di Cechov e di sognare su di essi come chiedono di essere sognati».
Le Lezioni di letteratura russa di Nabokov terminano con un capitoletto su Gor’kij, scrittore non molto apprezzato se non per la commedia I bassifondi, mentre tutto il resto, inficiato com’è dalla predica politica secondo il severo Nabokov, trascurabile e di non alto livello .

La Stampa TuttoScienze 2.12.15
Usa contro Ue: chi entrerà per primo nelle nostre teste?
I due progetti concorrenti per l’esplorazione del cervello Obiettivo: battere l’epidemia di malattie mentali e neurodegenerative
di Fabio Di Todaro

Un secolo è servito per studiare la forma e le funzioni dei neuroni. Molto meno - giura Emilio Bizzi, professore di neurofisiologia al Massachusetts Institute of Technology di Boston - servirà, fortunatamente, per trovare le prime cure a malattie ancora oggi incurabili: dall’Alzheimer all’autismo fino alla schizofrenia. «La risposta potremmo trovarla nella terapia genica, con “pezzi” di Dna utilizzati al posto dei farmaci», racconterà lo scienziato durante il forum «Un viaggio di cento anni nelle neuroscienze», in programma domani a Roma, all’Accademia Nazionale dei Lincei.
Sarà l’occasione per discutere le sfide che attendono i ricercatori al lavoro sul sistema nervoso e sulla mappatura del cervello. Gli obiettivi sono tanti, tra cui mettere a punto cure in grado di arginare le malattie mentali che, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, sono sempre più diffuse e colpiscono ormai un europeo su quattro.
È noto che la complessità del cervello sta nei suoi numeri: 96 miliardi di cellule, 100 mila in un millimetro cubo della corteccia e nello stesso spazio 100 milioni di contatti sinaptici. Ma, se finora è mancata «la conoscenza dei meccanismi di funzionamento dei singoli gruppi cellulari», grazie a cui le intenzioni vengono tradotte in «comandi dettagliati», oggi - aggiunge Bizzi - «possiamo studiare i circuiti neurali in vivo: ecco perché servirà molto meno tempo per capire come agiscono le fibre nervose superiori».
Balzo in avanti
A fornire l’opportunità di questo balzo in avanti sono due scoperte che si candidano a diventare decisive: l’optogenetica e la metodologia «Crispr». La prima è la tecnica che, sfruttando la luce, permette di sondare i circuiti neuronali all’interno di cervelli sani nell’arco di pochi millisecondi. La seconda, invece, è una metodologia di «editing» del genoma, con cui si identificheranno i geni da «tagliare» o da «aggiungere», una volta completata la gamma di associazioni a diverse malattie, sia neurodegenerative sia psichiatriche. Il futuro, quindi, in questo campo come nell’oncologia, è affidato alla nuova dimensione della «medicina di precisione». Prevenzione, diagnosi e terapie saranno ridisegnate attorno alla personalizzazione dei trattamenti. Non si classificheranno più le malattie a carattere generale, ma si discuterà delle loro concrete manifestazioni in ciascun paziente.
È così che ci si potrà orientare nel labirinto del cervello. Un vero e proprio «groviglio» che ha fatto sì che le prime scoperte che lo riguardano partissero sempre da un approccio rigorosamente riduzionista. Prendendo un singolo neurone - oppure gruppi ristretti - è stata studiata l’anatomia e si è riconosciuto il ruolo dei neurotrasmettitori e quello dei meccanismi per il trasferimento delle informazioni. Se oggi - per dirla con le parole di Bizzi - «conosciamo quasi completamente la fisiologia dei neuroni», il merito è da ascrivere a Camillo Golgi, che per primo li riconobbe nel 1873, e al collega spagnolo Ramon Y Cayal. A entrambi, nel 1906, fu assegnato il Nobel per la Medicina «per il lavoro svolto sulla struttura del sistema nervoso»- Grazie a loro - al contrario di quanto era stato ritenuto fino a quel momento - sappiamo che ogni neurone costituisce un’unità a sé stante e che le cellule nervose sono contigue, ma non continue.
La prima metà del 900 è poi servita per analizzare i meccanismi alla base della conduzione nervosa: funzione delle sinapsi e ruolo dei mediatori chimici, cruciali per la definizione dei primi farmaci antidepressivi. Dagli Anni 50 in poi, invece, la comunità scientifica si è concentrata sullo sviluppo del sistema nervoso centrale, anche grazie alle ricerche di un altro Nobel come Rita Levi Montalcini. E ora, a inizio XXI secolo, le prospettive si sono di colpo ampliate con i grandi progetti di mappatura del cervello umano: quello statunitense e il «concorrente» europeo. Finanziati complessivamente con quattro miliardi di euro, rappresentano gli strumenti con cui si punta a ideare e a trasformare in realtà le prime cure davvero personalizzate.
Ma, al là del «tema» comune, i due programmi sono in realtà molto diversi. Quello coordinato dal Politecnico di Losanna - che al convegno di domani sarà rappresentato da Ferah Kherif, direttore del laboratorio di ricerca sulle neuroscienze cliniche - punta a realizzare un «super-cervello» artificiale in grado di riprodurre il funzionamento di quello umano. Una scelta tuttavia contestata attraverso le colonne della rivista «Nature» da oltre 700 neuroscienziati europei, convinti che le simulazioni di laboratorio non siano affatto fedeli e non siano in grado di riprodurre le proprietà operative della «macchina» umana. «In effetti la metafora cervello-pc non sempre vale: i chip sono tutti uguali, i neuroni no», sottolinea Bizzi
Nuove terapie
Diversa è l’idea che descriverà il neuroscienziato Rafael Yuste della Columbia University. L’obiettivo oltreoceano è infatti quello di creare una mappa del cervello da cui estrarre una riserva di informazioni utili per lo sviluppo di terapie del tutto nuove. Della sfida, nei prossimi anni, punta a far parte anche l’Italia, con il nuovissimo progetto dello «Human Technopole» - coordinato dall’Iit, l’Istituto Italiano di Tecnologia - che nelle neuroscienze dovrebbe avere uno dei suoi punti di forza. Secondo Bizzi, «la strada da percorrere è ormai individuata: soltanto attraverso la conoscenza completa del genoma dei neuroni si potranno mettere a punto terapie efficaci contro le malattie neurologiche e psichiatriche».
Twitter @fabioditodaro

La Stampa TuttoScienze 2.12.15
Usa contro Ue: chi entrerà per primo nelle nostre teste?
I due progetti concorrenti per l’esplorazione del cervello Obiettivo: battere l’epidemia di malattie mentali e neurodegenerative
di Fabio Di Todaro

Un secolo è servito per studiare la forma e le funzioni dei neuroni. Molto meno - giura Emilio Bizzi, professore di neurofisiologia al Massachusetts Institute of Technology di Boston - servirà, fortunatamente, per trovare le prime cure a malattie ancora oggi incurabili: dall’Alzheimer all’autismo fino alla schizofrenia. «La risposta potremmo trovarla nella terapia genica, con “pezzi” di Dna utilizzati al posto dei farmaci», racconterà lo scienziato durante il forum «Un viaggio di cento anni nelle neuroscienze», in programma domani a Roma, all’Accademia Nazionale dei Lincei.
Sarà l’occasione per discutere le sfide che attendono i ricercatori al lavoro sul sistema nervoso e sulla mappatura del cervello. Gli obiettivi sono tanti, tra cui mettere a punto cure in grado di arginare le malattie mentali che, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, sono sempre più diffuse e colpiscono ormai un europeo su quattro.
È noto che la complessità del cervello sta nei suoi numeri: 96 miliardi di cellule, 100 mila in un millimetro cubo della corteccia e nello stesso spazio 100 milioni di contatti sinaptici. Ma, se finora è mancata «la conoscenza dei meccanismi di funzionamento dei singoli gruppi cellulari», grazie a cui le intenzioni vengono tradotte in «comandi dettagliati», oggi - aggiunge Bizzi - «possiamo studiare i circuiti neurali in vivo: ecco perché servirà molto meno tempo per capire come agiscono le fibre nervose superiori».
Balzo in avanti
A fornire l’opportunità di questo balzo in avanti sono due scoperte che si candidano a diventare decisive: l’optogenetica e la metodologia «Crispr». La prima è la tecnica che, sfruttando la luce, permette di sondare i circuiti neuronali all’interno di cervelli sani nell’arco di pochi millisecondi. La seconda, invece, è una metodologia di «editing» del genoma, con cui si identificheranno i geni da «tagliare» o da «aggiungere», una volta completata la gamma di associazioni a diverse malattie, sia neurodegenerative sia psichiatriche. Il futuro, quindi, in questo campo come nell’oncologia, è affidato alla nuova dimensione della «medicina di precisione». Prevenzione, diagnosi e terapie saranno ridisegnate attorno alla personalizzazione dei trattamenti. Non si classificheranno più le malattie a carattere generale, ma si discuterà delle loro concrete manifestazioni in ciascun paziente.
È così che ci si potrà orientare nel labirinto del cervello. Un vero e proprio «groviglio» che ha fatto sì che le prime scoperte che lo riguardano partissero sempre da un approccio rigorosamente riduzionista. Prendendo un singolo neurone - oppure gruppi ristretti - è stata studiata l’anatomia e si è riconosciuto il ruolo dei neurotrasmettitori e quello dei meccanismi per il trasferimento delle informazioni. Se oggi - per dirla con le parole di Bizzi - «conosciamo quasi completamente la fisiologia dei neuroni», il merito è da ascrivere a Camillo Golgi, che per primo li riconobbe nel 1873, e al collega spagnolo Ramon Y Cayal. A entrambi, nel 1906, fu assegnato il Nobel per la Medicina «per il lavoro svolto sulla struttura del sistema nervoso»- Grazie a loro - al contrario di quanto era stato ritenuto fino a quel momento - sappiamo che ogni neurone costituisce un’unità a sé stante e che le cellule nervose sono contigue, ma non continue.
La prima metà del 900 è poi servita per analizzare i meccanismi alla base della conduzione nervosa: funzione delle sinapsi e ruolo dei mediatori chimici, cruciali per la definizione dei primi farmaci antidepressivi. Dagli Anni 50 in poi, invece, la comunità scientifica si è concentrata sullo sviluppo del sistema nervoso centrale, anche grazie alle ricerche di un altro Nobel come Rita Levi Montalcini. E ora, a inizio XXI secolo, le prospettive si sono di colpo ampliate con i grandi progetti di mappatura del cervello umano: quello statunitense e il «concorrente» europeo. Finanziati complessivamente con quattro miliardi di euro, rappresentano gli strumenti con cui si punta a ideare e a trasformare in realtà le prime cure davvero personalizzate.
Ma, al là del «tema» comune, i due programmi sono in realtà molto diversi. Quello coordinato dal Politecnico di Losanna - che al convegno di domani sarà rappresentato da Ferah Kherif, direttore del laboratorio di ricerca sulle neuroscienze cliniche - punta a realizzare un «super-cervello» artificiale in grado di riprodurre il funzionamento di quello umano. Una scelta tuttavia contestata attraverso le colonne della rivista «Nature» da oltre 700 neuroscienziati europei, convinti che le simulazioni di laboratorio non siano affatto fedeli e non siano in grado di riprodurre le proprietà operative della «macchina» umana. «In effetti la metafora cervello-pc non sempre vale: i chip sono tutti uguali, i neuroni no», sottolinea Bizzi
Nuove terapie
Diversa è l’idea che descriverà il neuroscienziato Rafael Yuste della Columbia University. L’obiettivo oltreoceano è infatti quello di creare una mappa del cervello da cui estrarre una riserva di informazioni utili per lo sviluppo di terapie del tutto nuove. Della sfida, nei prossimi anni, punta a far parte anche l’Italia, con il nuovissimo progetto dello «Human Technopole» - coordinato dall’Iit, l’Istituto Italiano di Tecnologia - che nelle neuroscienze dovrebbe avere uno dei suoi punti di forza. Secondo Bizzi, «la strada da percorrere è ormai individuata: soltanto attraverso la conoscenza completa del genoma dei neuroni si potranno mettere a punto terapie efficaci contro le malattie neurologiche e psichiatriche».

La Stampa TuttoScienze 2.12.15
C’è un altro universo là fuori. Lo guarderemo con occhi da insetto
Domani al via Lisa Pathfinder: il satellite che cerca le onde gravitazionali
Un cuore di due cubetti d’oro e di platino
per indagare cos’è davvero la gravità
di Barbara Gallavotti

Come sempre, i primi a partire sono gli esploratori: anche quando ci si avventura nello spazio e a viaggiare non sono esseri umani ma strumenti sofisticati. Così domani inizierà la sua avventura Lisa («Laser Interferometer Space Antenna») Pathfinder: un satellite dell’Esa di circa due tonnellate lanciato dalla base di Kourou, nella Guyana Francese. Il suo scopo sarà mettere alla prova tecnologie sviluppate per la futura missione eLisa («evolved Laser Interferometer Space Antenna»), pensata per catturare le onde gravitazionali: minuscole increspature dello spazio-tempo provocate da masse in movimento.
L’esistenza delle onde gravitazionali è prevista dalla teoria della Relatività, ma non sono mai state osservate direttamente, nonostante anni di ricerche. «Di certo, se esistono non potranno sfuggire ad eLisa», dice Philippe Jetzer, fisico teorico all’Università di Zurigo ed esperto in onde gravitazionali.
La missione sarà ciò che i fisici chiamano un interferometro: tre satelliti in orbita intorno al Sole, a una distanza di 150 milioni di km dalla nostra stella, e disposti ai vertici di un immaginario triangolo equilatero con lati lunghi un milione di km ciascuno. A comporre il «cuore» di ciascuno un cubetto di oro e platino, fluttuante in uno spazio vuoto. I cubetti, poi, saranno connessi da fasci di luce laser. Il passaggio di un’onda gravitazionale deformerà lo spazio-tempo e di conseguenza le lunghezze dei tre lati del triangolo non saranno più identiche. Si tratterà di un’alterazione davvero minuscola, inferiore al diametro di un atomo, ma sarà comunque sufficiente a far sì che i fasci di luce laser non siano più sincronizzati e questo micromutamento rivelerà il passaggio dell’onda.
Come tutte le imprese scientifiche senza precedenti, eLisa richiede lo sviluppo di tecnologie innovative e la missione di «Lisa l’esploratrice» - rimandata all’ultimo momento di 24 ore - consisterà proprio nel verificare le condizioni del loro funzionamento. «Dovremo accertarci che i cubetti non siano soggetti a forze che potrebbero far cambiare loro posizione, creando un rumore di fondo che renderebbe impossibile ascoltare il passaggio di un’onda gravitazionale: per assordarci basterebbe uno spostamento di un miliardesimo di metro, pari a quello che sarebbe causato sulla Terra dal peso di un microbo», dice Stefano Vitale dell’Università di Trento, coordinatore scientifico di Lisa Pathfinder.
A questo scopo il satellite ora in partenza conterrà due cubetti di oro e platino identici a quelli previsti su eLisa. I loro spostamenti relativi saranno tenuti sotto controllo da un «banco ottico».
«I due cubetti, di circa 4 centimetri di lato sono stati sviluppati dall’industria spaziale italiana: sono purissimi, estremamente compatti e con una carica magnetica praticamente nulla, così da non essere sensibili al campo magnetico solare», continua Vitale. L’Italia ha un ruolo molto importante in Lisa, grazie al coinvolgimento scientifico ed economico di Asi e Infn. Al nostro Paese si devono anche altre soluzioni tecnologiche sotto esame, come i sensori che terranno sotto controllo i movimenti dei blocchetti. «Lisa raccoglierà dati da febbraio, per circa sei mesi».
Una volta terminata l’esplorazione di Lisa, occorrerà preparare il lancio di eLisa, previsto per il 2034. Per allora è probabile che l’esistenza delle onde gravitazionali sarà stata già provata con interferometri che si trovano a terra, come l’italiano Virgo o l’americano Ligo (concettualmente identici alla loro «sorella» spaziale ma lunghi pochi km). Questo però non diminuisce affatto le motivazioni dei fisici. «eLisa avrà una sensibilità irraggiungibile da Terra e sarà un nuovo modo di guardare l’Universo. Come se dopo aver guardato una foresta con gli occhi umani, la osservassimo con quelli di un insetto, sensibili all’ultravioletto - dice Jetzer -. Potremo fare cose oggi impossibili, come studiare i movimenti di coppie di nane bianche o ricostruire eventi avvenuti quando le galassie erano giovani e a volte collassavano le une sulle altre, portando alla fusione i buchi neri al loro interno».
Poi - conclude - «avremo finalmente un mezzo per capire meglio la forza di gravità e verificare il funzionamento della Relatività in condizioni impossibili da creare a Terra».

La Stampa TuttoScienze 2.12.15
“I neutrini cosmici raccontano gli eccessi dei buchi neri”
di Gabriele Beccaria

I primi due alieni, individuati nel 2013, furono soprannominati Bert ed Ernie. «Così era facile ricordarli». Poi sono aumentati, i personaggi di «Sesame Street» sono finiti e ora - racconta Francis Halzen - «gli eventi in cui si manifestano sono diventati centinaia».
Gli alieni sono i neutrini cosmici e, definiti così, lo sembrano a tutti gli effetti. L’eccezionalità sta nel fatto che individuarli è ancora più difficile che trovare quelli generati negli impatti con l’atmosfera, trapassandoci, a miliardi ogni secondo, senza che ce ne accorgiamo. Quelli cosmici provengono dagli ambienti più estremi dell’Universo, come buchi neri e supernovae e Halzen è uno dei massimi esperti nella caccia a questi fantasmi. Fisico alla University of Wisconsin, Madison, ha raccontato le sue indagini a Berna, in Svizzera, in occasione dei Premi Balzan 2015. I dati che lo emozionano provengono dalla fantascientifica struttura al Polo Sud che ha contribuito a creare. Si chiama «Ice Cube Neutrino Observatory» e il telescopio consiste in una serie di pozzi zeppi di sensori. Mentre i neutrini «atmosferici» sono una pioggia, quelli cosmici sono gocce isolate. Ma - spiega Halzen - «assomigliano ai lampi di raggi gamma che gli astronomi osservano nella luce». È quindi possibile che astronomi e fisici stiano intercettando manifestazioni con un’origine comune. La differenza, al momento, consiste nelle lunghezze d’onda: più corte - migliaia di volte - quelle dei neutrini ad alta energia.
Quando si chiede a Halzen che cosa scoprirà sull’Universo, risponde con una risata: «Non lo sappiamo ed è questa imprevedibilità a rendere tutto più affascinante». E aggiunge che ora l’obiettivo è accrescere i dati sui «suoi» neutrini. Lo si farà con un altro telescopio, ancora più potente, in progetto accanto all’«Ice Cube».

La Stampa TuttoScienze 2.12.15
L’enigma della mummia
“Nel Dna i geni resistenti agli antibiotici di oggi”
I test su una ragazza Inca di oltre mille anni fa
di Eugenia Tognotti

Potrebbe avere enormi applicazioni pratiche per la medicina la scoperta di una serie di geni collegati all’antibiotico-resistenza nel colon di una mummia precolombiana dell’XI secolo.
Portare alla luce che quelle mutazioni genetiche si sono verificate in seguito a un processo naturale, secoli prima dell’introduzione dei moderni chemioterapici, dimostra che la resistenza ad una gamma di antibiotici di uso corrente (fosfomicina, cloramfenicolo, aminoglicosidi, macrolidi, quinoloni, tetraciclina, vancomicina e così via) non è dovuta solo all’azione e al cattivo uso delle moderne terapie antibiotiche. È questo uno dei clamorosi risultati della ricerca pubblicata sulla rivista «PlosOne».
Ma, per quanto importante, questo risultato non è certo l’unico. Di grande rilevanza sono anche le acquisizioni sull’evoluzione di alcuni patogeni. Il protozoo-parassita Trypanosoma cruzi - agente della malattia di Chagas che colpisce ancora oggi 6-7 milioni di persone in America Latina - è apparso più arcaico rispetto a quello circolante oggi : la somiglianza nel Dna si attesta sul 90% rispetto ad alcuni ceppi attuali. Di più. I ceppi dell’Hpv, lo Human papilloma virus, osservati nello studio, sono risultati, invece molto simili - un buon 98-99% - a quelli moderni. Un dato estremamente importante, da cui si può dedurre che, mentre il Trypanosoma cruzi si è dovuto adattare a condizioni nuove dell’ospite umano, il papilloma virus era già così ben adattato - e dalla più remota antichità - da non avere bisogno di sviluppare ulteriori mutazioni.
L’importante studio molecolare dell’équipe internazionale di studiosi americani e italiani - tra cui il paleopatologo Gino Fornaciari dell’Università di Pisa e del Centro per gli Studi Storici, Antropologici e Paleopatologici dei popoli della Sardegna e del Mediterraneo presso il dipartimento di Scienze biomediche dell’Università di Sassari - ha portato ad una serie di nuove acquisizioni. Che di certo non avrebbero mai potuto immaginare, nella seconda metà del XIX secolo, i medici e i naturalisti italiani che, spinti da un interesse storico-antropologico, portarono in Italia e donarono al Museo di Antropologia ed Etnologia dell’Università di Firenze (fondato, nel 1869, da Paolo Mantegazza) diverse mummie ritrovate a Cuzco, l’antica capitale dell’impero Inca.
Condotta con la tecnica della metagenomica, l’indagine ha portato alla ricostruzione completa del microbioma - vale a dire la flora batterica intestinale - e al ritrovamento e al sequenziamento di una serie di antichi agenti patogeni, come, appunto, il protozoo-parassita Trypanosoma cruzi e alcuni ceppi del virus del papilloma umano, come l’Hpv-21 e l’Hpv-49.
Proprio la malattia di Chagas uccise quasi sicuramente la giovane donna, di età tra i 18 e i 23 anni, la cui mummia è stata sottoposta a un’accurata autopsia, rivelando l’ingrandimento del cuore, dell’esofago e del colon. Il ritrovamento di abbondante Dna di Trypanosoma cruzi nel colon ha confermato la diagnosi morfologica fatta già nel 1992 da Fornaciari. Per sapere con quali farmaci o sostanze psicoattive si curò la donna, che soffriva di una rilevante cardiomegalia, occorrerà, tuttavia, aspettare i risultati dei test tossicologici su una treccia di capelli neri, staccata dal corpo. Gli studiosi pensano che abbia fatto ricorso a foglie di coca: neppure gli antibiotici moderni, stando ai geni ritrovati, avrebbero potuto fare qualcosa per lei.
Ulteriori analisi hanno poi rivelato la presenza di un altro batterio, il Clostridium difficile, che vive nell’intestino umano e che, proliferando in modo incontrollato, rilascia tossine capaci di attaccare la mucosa intestinale. Per effettuare l’autopsia Fornaciari e i colleghi hanno dovuto togliere le mummie, disposte in posizione fetale, dai cesti che le contenevano: provvisti di maniglie, con cui erano sospese alle tombe di famiglia, questi cesti servivano per il trasporto dei corpi nel giorno della celebrazione dei defunti.