giovedì 17 dicembre 2015

Corriere 17.12.15
Mosul. La missione italiana
Guerriglia casa per casa, popolazioni filo-Isis
Cosa attende i soldati che difenderanno la diga
di Lorenzo Cremonesi


KOBANE (Siria) Le colline attorno alla diga sono brulle, costellate di villaggi poveri: casette ad un piano, fattorie isolate con torme di cani randagi spaventati dalla guerra. L’anno scorso tra il 15 e 19 agosto, quando i guerriglieri di Isis avevano occupato gli spalti alti dello sbarramento e setacciavano i nuclei urbani vicini, i peshmerga bloccavano l’accesso a noi giornalisti dicendo: «Sono zone dove è facile organizzare imboscate. Tra le rocce piazzano le mine. Dalle colline alte i cecchini dominano settori molto ampi. Non possiamo garantire la vostra sicurezza». Il bacino artificiale si vede da molto lontano, si incunea azzurro in mezzo al marrone verdastro. D’estate una lieve brezza allieta un poco dal caldo opprimente. Ma d’inverno soffia perennemente il vento freddo del deserto, che non trova ostacoli e porta facilmente a temperature ben sotto lo zero.
Questo è il luogo della diga posta una quarantina di chilometri a nord di Mosul. La sua instabilità cronica, strutturale, si offre a facile metafora delle difficoltà che attendono i 450 militari italiani destinati a garantire la sicurezza dei tecnici e operai della Trevi di Cesena chiamati a cercare di ripararla. I problemi che la circondano sono però politici e militari, prima che ingegneristici. L’area a sud di Dohuk e a nord di Mosul, dal giugno 2014 capitale irachena del Califfato, è infatti terra di confine tra le province curde e quelle sunnite. Non a caso i peshmerga, grazie alla copertura dei caccia americani, prima di avanzare sono costretti a setacciare i villaggi. Qui la popolazione sunnita sta in maggioranza con Isis. La guerriglia è strada per strada, casa per casa. I cartelli stradali sono in curdo e arabo, raramente in inglese. I villaggi vuoti, le abitazioni abbandonate stanno a testimoniare le ultime fughe di popolazione, compresa quella cristiana, oggi rifugiata soprattutto a Erbil, ma in maggioranza già emigrata tra Europa, Canada, Usa.
Ci siamo fermati quattro giorni fa sulle sponde settentrionali del grande lago artificiale venendo da Erbil. Sulla statale verso nord, interminabili file di camion turchi rappresentano la linfa vitale per la provincia autonoma curda, formalmente ancora sottomessa alla sovranità di Bagdad, ma de facto ormai totalmente indipendente. Nel giugno-settembre 2014 il lago era praticamente irraggiungibile. Adesso, con il fronte spostato a ridosso di Mosul, vengono le famiglie curde per i picnic del venerdì. Però la diga resta inavvicinabile. La pattugliano unità scelte di peshmerga assieme a un pugno di commando americani e inglesi. «La diga è troppo importante. Non dobbiamo assolutamente rischiare ancora che cada nelle mani di Isis», dicono i comandi di Dohuk. Così hanno posto limiti invalicabili ben lontani dallo sbarramento e sulle colline più alte: sensori elettronici, visori notturni, campi minati. Gira anche voce che siano state poste delle reti nel bacino, per evitare che Isis possa lanciare cariche esplosive galleggianti.
I tecnici italiani dovranno comunque fare i conti con instabilità strutturali di vecchia data. Se ne accorsero presto i dirigenti del consorzio italo-tedesco che nel 1980 Saddam Hussein assoldò per costruire lo sbarramento sul Tigri. L’ex dittatore iracheno lo volle in quella gola aperta una quarantina di chilometri a nord di Mosul, anche se la qualità del suolo era considerata assolutamente inadatta, per il fatto che nei suoi piani le priorità politiche sovrastavano quelle economiche. Intendeva continuare l’«arabizzazione» della regione, spingendo i curdi verso nord. La costruzione andò per le lunghe. Lo sbarramento sfiora i tre chilometri e mezzo e raggiunge l’altezza di 133 metri. Dietro nacque un lago gigantesco destinato a soddisfare la sete cronica del Paese, penalizzato dal fatto che le  sorgenti del Tigri e l’Eufrate sono situate tra le montagne turche. Oggi la diga ha in valore ancora più vitale, visto che dal 2003 le strutture idriche del Paese sono diventate ancora più obsolete. Ma nel 1984 i tecnici furono costretti a scavare profonde gallerie sotto la diga destinate ad essere via via riempite con iniezioni di cemento e materiali consolidanti. Il terreno gessoso si scioglie al contatto con l’acqua. L’embargo internazionale seguito all’invasione del Kuwait nel 1990 ridusse ulteriormente le riparazioni. Nel marzo 2003 furono i blitz di peshmerga e marines ad evitare che potesse venire minata dai baathisti fedelissimi di Saddam.
Fu allora che venne alla luce il problema della diga quale potenziale catastrofe umanitaria. Gli ingegneri Usa resero noto che il suo crollo avrebbe causato un’onda alta oltre venti metri: in due ore poteva sommergere Mosul, la valle di Ninive con i suoi antichi villaggi cristiani, e avrebbe quindi raggiunto Bagdad con un onda alta ancora quattro metri e mezzo. Vittime possibili: mezzo milione di persone, oltre a danni incalcolabili. Quella minaccia non è cambiata, resta più attuale che mai. E i militari italiani dovranno contribuire a dissiparla.