Corriere 16.12.15
Politica e impegno militare per un «ruolo guida» in Libia
di Franco Venturini
Il negoziato sulla Libia ci ha insegnato nell’ultimo anno che gli annunci valgono poco e le illusioni durano pochissimo. Avrà miglior sorte la firma dell’accordo per un governo unitario prevista tra oggi e domani in Marocco? Forse sì, perché dai tempi della interminabile mediazione León che l’Italia ha sin troppo appoggiato la «questione libica» ha subìto una forte e determinata accelerazione. C’è stata la strage di Parigi. Si è consolidato il caposaldo Isis di Sirte, che controlla oltre duecento chilometri di costa e tende ad allargarsi verso le zone petrolifere. Sono scesi in camp, soprattutto, gli Stati Uniti, che non vogliono l’apertura di un nuovo fronte del Califfato proprio davanti a una fragile e vulnerabile Europa.
Tutte urgenze che ovviamente l’Italia condivide, e che hanno trovato riscontro nel vertice di Roma presieduto appunto da Usa, Italia e Onu. Nessuna di queste tre parti ignora che il nuovo governo libico, se nascerà, avrà una base popolare, parlamentare e militare troppo ristretta. Nessuno ignora che i parlamenti di Tripoli e forse anche di Tobruk potrebbero votargli contro. Tutti capiscono che in Libia contano le intese con le tribù e ancor più con le milizie armate, non le firme su un pezzo di carta. Ma il tentativo in corso non è per questo un errore. Il nuovo mediatore Martin Kobler doveva forse ricominciare a tessere una tela tanto conflittuale e frastagliata da non avere alcuna probabilità di reggere, lasciando che gruppi di interesse, milizie e interessi personali (oltre all’Isis) tenessero in ostaggio l’Occidente a tempo indeterminato?
Il calendario ultraveloce deciso a Roma (firma oggi, ricorso all’Onu forse già il 24) ha il merito di rovesciare un tavolo ormai non più tollerabile. Ma comporta due fondamentali consapevolezze, in assenza delle quali l’iniziativa fallirà e provocherà danni ancora maggiori rispetto a quelli odierni.
Il patto unitario dovrà rimanere aperto a chiunque voglia aderire in un secondo tempo. Il dialogo costruttivo da tempo avviato con la milizia di Misurata dovrà fare scuola presso le altre milizie, a cominciare da quella, divisa al suo interno, di Zintan. Al generale Haftar, autentico guastafeste nominato ministro della Difesa dal parlamento di Tobruk, dovrà essere offerto un ruolo di compromesso accettabile anche per le milizie di Tripoli. Sarà essenziale far affluire aiuti economici targati Europa, Fondo Monetario e Banca mondiale per dimostrare che il nuovo accordo è nell’interesse concreto dei più. E sarà essenziale interrompere davvero i «contributi» provenienti attraverso canali nascosti da ben noti Paesi (Turchia, Egitto, Emirati, Qatar) che hanno sin qui soffiato sul fuoco. Invece di battersi per i soldi come fanno oggi, i libici dovranno essere convinti a fare la pace per i soldi.
Ma soprattutto, si dovrà essere pronti ad applicare la risoluzione che attende in rampa di lancio al Consiglio di sicurezza. La legalità interna-zionale sarà a quel punto garantita anche se molti occhi dovranno essere chiusi sulla natura del nuovo governo libico, ma per fare cosa? È risaputo che Gran Bretagna, Francia e Usa stanno valutando iniziative militari mirate (non parliamo di una missione di peace enforcing , che comporterebbe l’utilizzo di decine di migliaia di uomini) . E L’Italia, cui Obama si è appena riferito prevedendone l’ulteriore aiuto nella lotta contro l’Isis? Dall’addestramento delle forze libiche alle incursioni sulle coste e nei porti tenendo d’occhio il problema dei migranti che tanto ci riguarda, il tempo delle scelte si è fatto improvvisamente vicino. Il primo interesse nazionale dell’Italia è in gioco, e quel «ruolo guida» che il governo ha reclamato in Libia dovrà trovare riscontri convincenti. Non obbligatoriamente militari, ma anche militari se le circostanze lo imporranno.