Corriere 15.12.15
Tommaso, l’amore e la lotta con l’angelo della carne
Negli schizzi e nelle «Rime» il sentimento per il giovane Cavalieri. Nato anche dallo spirito
di Roberta Scorranese
Una casa romana. Patrizia. Un salone rivestito di marmi, quadri, piccole sculture. Il vecchio maestro entra zoppicando (il giorno prima è caduto da un’impalcatura). Deve incontrare il facoltoso padrone di casa, che gli ha commissionato un’opera. Ma il signore non c’è. Quello che si trova davanti, placidamente appoggiato al camino, intento a gustare un’albicocca glassata, è un giovanissimo uomo con gli occhi di fuoco. Dio, quel corpo. La perfezione delle giunture, le ombre simmetriche dei muscoli: quando Michelangelo vide per la prima volta Tommaso dei Cavalieri forse se ne innamorò perché nel ragazzo ritrovò se stesso. O, meglio, l’aspirazione alla perfezione spirituale che, in lui, coincideva con la perfezione dei corpi.
Era il 1532 e questo episodio è stato ricostruito da un inedito di Stendhal, tradotto e pubblicato vent’anni fa in Italia, da La Vita Felice. Il titolo Chi mi difenderà dal tuo bel volto? è rubato a una delle decine di Rime che Michelangelo dedicherà a Tommaso. Oltre a una serie di disegni, come Cleopatra , in mostra a Milano.
Ma che forma ebbe questo amore? Tommaso aveva meno di vent’anni quando incontrò il 57enne artista, giunto a Roma per stravolgere per sempre il volto della casa di Dio (due anni dopo inizierà Il Giudizio Universale ). Eppure il Cavalieri non vestì mai i panni dello sciocco e ignorante pupillo che vive alle spalle del famoso maestro. Tommaso aveva ricevuto un’educazione raffinata, era appassionato di arte, musica e archeologia («Amo lo studio, ma ancor più le arti», disse quel giorno a Michelangelo, che rispose confuso: «L’arte vuole continuo studio»). Tutta Roma lodava la bella faccia di Tommaso («Se ’l foco fusse alla bellezza equale/ degli occhi vostri, che da que’ si parte,/ non avrie ’l mondo sì gelata parte/ che non ardessi com’acceso strale», scrisse il maestro) ma anche la sua vivace intelligenza. Quando, dal 1548, fu nominato deputato alla fabbrica del Campidoglio, seguì con molta attenzione «professionale» i progetti michelangioleschi per il Palazzo dei Conservatori e per quello Senatorio. E così, nell’autunno della sua pur lunga vita, Michelangelo trovò in lui l’incarnazione di quella dialettica tra tormento e estasi che aveva sempre scolpito. Quel corpo.
Quel corpo che poi riprodusse (a detta di molti specialisti) nelle sembianze de Il Genio e la Vittoria , oggi a Palazzo Vecchio. Quel corpo che, a differenza degli inizi, segnati dal trionfo di muscoli e carne viva del David, adesso gli procurava un segretissimo spasmo. Se in gioventù aveva liberato dalla pietra la figura perfetta, vibrante dell’eroe che vince con l’intelligenza contro Golia, adesso, al contrario lasciava il corpo nella sua prigionia di marmo, in una lotta con l’angelo della voluttà. Come nei Prigioni, le sei statue pensate per la Tomba di Giulio II e sbozzate, non finite. Non sopportava più la carne disgiunta dallo spirito. Coltivava le scienze, studiava l’astronomia (gli anni in cui Michelangelo scolpisce la Pietà e Leonardo sperimenta le macchine volanti sono gli stessi in cui Copernico studiava a Padova e a Bologna), approfondiva l’anatomia. E sviluppò un rapporto diretto con Dio, assai vicino alle istanze dei riformisti. La potenza della sola carne lo feriva. Tommaso (forse) lo capì.
E non fu solo un corpo. Fu amico, allievo, compagno. Quando il Buonarroti, a quasi 90 anni, si spense nella sua casa romana di Macel de’ Corvi, nel 1564, Cavalieri era accanto a lui. Ecco, dunque, che forma ebbe questo amore: una sintesi delle due vite michelangiolesche, quella della beltà senza fine dei corpi e quella dei corpi consapevoli della loro intima e necessaria incompiutezza.
Su tutto, lo stupore di un artista che si scopre innamorato e urla nelle Rime : «Come può esser ch’io non sia più mio?».