Corriere 14.12.15
Esportare democrazia La realtà e la leggenda
risponde Sergio Romano
Per decenni ci è stato spiegato che le guerre in Afghanistan, Iraq, Libia ecc. sono state fatte per democratizzare quei popoli oppressi. La stessa cosa ci è stata ripetuta per le primavere arabe. Ora, dopo l’uccisione di milioni di innocenti, veniamo a sapere che la democrazia non si esporta, ma si conquista giorno per giorno. Dato che fatta l’Italia ancora non sono stati fatti gli italiani, speriamo di non dover sentire fra qualche decennio che l’integrazione degli immigrati è un processo difficile e che può durare dei secoli. Esempio pratico: gli Stati Uniti d’America.
Virgilio Avato
Caro Avato,
Non sempre gli Stati Uniti hanno giustificato le loro guerre con l’obbligo morale di esportare democrazia in Paesi autoritari e totalitari. A Washington, nel 2002, ho assistito a un polemico scambio di battute fra Donald Rumsfeld, allora segretario della Difesa nell’amministrazione presidenziale di George W. Bush, e il finanziere di origine ungherese George Soros. Questi chiese a Rumsfeld che cosa gli Stati Uniti avrebbero fatto per l’Afghanistan dopo il collasso del regime talebano nell’ottobre dell’anno precedente. Il segretario delle Difesa rispose bruscamente che non avevano alcuna intenzione di lasciarsi coinvolgere in un processo destinato a cambiare il regime politico e istituzionale del Paese. Si sarebbero limitati a dare una mano nella creazione di un nuovo esercito afgano, punto e basta. Questa era allora la filosofia politica dei neoconservatori. Per i nuovi falchi, l’espressione «cambio di regime» era sinonimo di una politica estera idealista e velleitaria. La presidenza Bush riesumò il concetto di «esportazione della democrazia» all’inizio del secondo mandato, quando fu necessario trovare una giustificazione per la continua presenza delle truppe americane in due Paesi in cui la guerra non era stata vinta. Ma su quali dati storici era fondato il concetto che l’America potesse davvero insegnare la democrazia ad altri Paesi? Le prove, secondo la tradizionale vulgata americana, erano nella parabola politica dei tre Paesi che gli Stati Uniti avevano sconfitto nella Seconda guerra mondiale: Germania, Italia e Giappone. Nel caso della Germania, in particolare, venne diffusa la tesi che il Terzo Reich fosse la naturale conclusione di un percorso segnato da regimi autoritari e militari. Per ingrandire il ruolo pedagogico degli Stati Uniti non si volle capire che la democrazia della Repubblica federale aveva alle sue spalle le grandi esperienze delle democrazie urbane, la nascita, nell’epoca di Bismarck, della maggiore socialdemocrazia europea, la straordinaria vivacità culturale della Repubblica di Weimar, il coraggio della opposizione al nazismo.
Come lei osserva, caro Avato, la democrazia è un processo di accumulazione storica che può essere rallentato o temporaneamente bloccato dalle circostanze, ma non viene mai a mio avviso, interamente perduto. Quanto alla integrazione di comunità straniere, il processo, invece, è generazionale. Oggi, mentre l’intero Medio Oriente attraversa una fase di grande subbuglio, vediamo soprattutto gli irriducibili foreign fighters . Domani vedremo il risultato più rassicurante della istruzione scolastica e della convivenza.