domenica 29 novembre 2015

Repubblica La domenica 29.11.15
L’inedito. Tribù metropolitane
Lévi-Strauss Un antropologo a New York
Fuggito dalla Parigi nazista l’autore di “Tristi tropici” si rifugiò tra i grattacieli di Manhattan. E in queste lettere ai genitori ne raccontò usi e costumi
di Fabio Gambaro


PARIGI «DA QUESTE PARTI VEDO PERSONE che vivono da venticinque anni nella condizione d’immigrati. Sono già al loro quarto o quinto paese rifugio, e dappertutto hanno lasciato qualcosa. Tra di loro ci sono giovani, uomini o donne, che non hanno mai conosciuto altra esistenza». Nel maggio del 1942, quando scrive queste amare parole, Claude Lévi-Strauss è in esilio a New York, dove si è rifugiato l’anno prima fuggendo dalla Francia delle persecuzioni razziali e dell’occupazione nazista. La lettera è una delle duecentodiciassette scritte dal celebre antropologo ai genitori tra il 1931 e il 1942 e oggi pubblicate per la prima volta in Francia in un volume intitolato Chers tous deux (Seuil, La librairie du XXI siècle, 560 pagine, 25 euro).
Il libro si apre con una quarantina di missive scritte dal futuro autore di Tristi tropici durante il servizio militare, prima a Strasburgo e poi a Parigi. Lo studioso poco più che ventenne vi descrive con curiosità e distacco i riti dell’esercito, nei cui ranghi però soffre soprattutto «l’assenza totale di solitudine». Appena terminato il servizio di leva, nel 1932, Lévi-Strauss ottiene il suo primo incarico come insegnante di filosofia a Mont de Marsan, una cittadina nel sud ovest della Francia. Da lì scriverà ai genitori un centinaio di volte, raccontando la vita di provincia, il mondo scolastico, le lezioni con le quali ad esempio fa scoprire Ibsen a studenti che non «non ne hanno mai sentito pronunciare il nome». Non mancano le gite in bicicletta e i piaceri della buona tavola, come pure le tracce delle sue letture, dove Viaggio al termine della notte — «un capolavoro lungo ma straordinario» — affianca la Storia della rivoluzione russa di Trotsky. In quei mesi infatti, il giovane professore s’interessa molto alla vita politica, milita nei ranghi della Federazione socialista e decide persino di candidarsi alle elezioni locali, progetto poi andato in fumo a causa di un incidente automobilistico.
A queste lettere — «testimonianza di un mondo che non esiste più», come scrive Monique Lévi-Strauss nell’introduzione — seguono quelle che Lévi-Strauss scrisse da New York nel primo periodo del suo esilio americano. Qui la tonalità è decisamente più cupa e preoccupata. Negli Stati Uniti l’antropologo deve affrontare la solitudine, la lontananza e le ristrettezze economiche, senza dimenticare le notizie inquietanti provenienti dalla Francia dove sono rimasti i genitori che lo studioso cerca in tutti i modi di far venire negli Stati Uniti. A New York oltre a darsi da fare per aiutare gli altri esuli in fuga dal nazismo, partecipa attivamente alle trasmissioni radiofoniche destinate a mantenere viva la speranza nella Francia occupata. Sono anni difficili. Per fortuna però Lévi-Strauss può contare sull’appoggio di un gruppo di esuli, tra cui Breton e Masson, con cui condivide inquietudini e speranze.
Nelle lettere, dove spesso è costretto a utilizzare parole in codice per aggirare la censura, non c’è però solo la preoccupazione. Lévi-Strauss vi racconta con stupore la scoperta della società americana, così diversa e lontana da quella francese, e sempre ricca di sorprese. I contatti con il mondo intellettuale newyorchese gli saranno estremamente utili anche sul piano scientifico. Basti pensare che proprio a New York incontrerà Roman Jakobson, il quale, iniziandolo ai segreti della linguistica, lo aiuterà a orientare le sue ricerche in direzione di quell’antropologia strutturale per cui lo studioso francese scomparso nel 2009 all’età di cent’anni è celebrato ancora oggi.