martedì 10 novembre 2015

Repubblica 9.11.15
Neuro
Codificazione facciale, misurazioni di onde cerebrali e battiti cardiaci scannerizzazione del cervello.
Dal Messico alla Polonia, i politici in campagna elettorale ora investono in tecnologie che ci “leggono dentro”.
Ci studiano per prevedere le nostre scelte dentro l’urna. E più ci conoscono più c’è il rischio che ci manipolino.
Neuro
di Federico Rampini


Pioniere della scienza è considerato Frans de Waal che scrisse un saggio nel 1982 Oggi ci si avvale di Big Data e nanotecnologie per confezionare messaggi suadenti

NEW YORK QUALI MECCANISMI del subconscio collettivo deve attivare Hillary Clinton, quali resistenze psichiche deve attutire e neutralizzare, per sfondare l’invisibile “soffitto di vetro”, cioè la barriera che fin qui ha impedito a una donna di diventare presidente degli Stati Uniti? Una risposta potrebbe venire da un nuovo ramo della scienza politica. Neuropolitics. È una dottrina che si sta raffinando rapidamente: lo studio del cervello umano per prevedere le nostre scelte politiche. I test preliminari sono avvenuti già da tempo in settori paralleli al marketing elettorale: nel marketing tout court. Da molto tempo la Silicon Valley investe in tecnologie che “ci leggono dentro”. Per esempio l’Intelligenza Artificiale che opera nel campo della ricognizione facciale, la lettura delle nostre pupille e delle onde sonore della nostra voce, la catalogazione e interpretazioni delle nostre smorfie, sguardi, inflessioni di parlata. Una volta imparato a decifrare l’animo umano, si analizzano le sue reazioni: dentro i reparti di un supermercato, o davanti alla vetrina di uno stilista, nell’atto di guardare una pubblicità. Il marketing incassa il “feedback” — l’informazione di ritorno, sulle nostre reazioni — e poi si adegua. Più ci conosce in profondità, meglio ci manipola. Se funziona per vendere uno smartphone, un’app digitale, un’automobile o un paio di jeans, forse vale anche per vendere un candidato.
La neuropolitica è meno nuova di quanto si creda. L’enciclopedia Wikipedia la definisce come la scienza che «indaga l’interazione tra il cervello e la politica, combinando i lavori delle neuroscienze, della psicologia comportamentale, della genetica, e delle scienze politiche». Ne fa risalire le prime intuizioni nientemeno che a Platone e John Locke, filosofi che s’interrogarono sulla natura del pensiero umano come fondamento per le scelte politiche. Nell’accezione contemporanea, un pioniere della neuropolitica è considerato Frans de Waal col suo saggio del 1982 sulla Chimpanzee Politics, sottotitolo Sesso e Potere tra i Primati.
Sissignori, gli etologi hanno molto da insegnarci sul comportamento della specie umana, meno “superiore” di quel che crediamo: gorilla, oranghi e scimpanzé padroneggiano varie tecniche di “manipolazione psicologica degli altri”. Dopo de Wallas i luminari più rispettati in questi campi arrivano al passaggio del millennio: Drew Westen, James Fowler, Darren Schreiber, William Connolly, con varie ricerche che stabiliscono collegamenti sistematici fra la biologia, i “neuroni del ragionamento”, e i comportamenti degli elettori alle urne. Connolly scrive Neuropolitics (sottotitolo Pensiero, Cultura, Velocità) nel 2002 per la University of Minnesota Press. Il best-seller di Drew Westen, del 2008, è tradotto anche in italiano: La mente politica, Il Saggiatore. E tuttavia all’epoca della sua uscita — il 2008 è la prima campagna presidenziale di Barack Obama — la neuropolitica era ancora una curiosità, una sfida intellettuale, che molti consideravano fantascienza. Non risulta che gli strateghi di Obama abbiano fatto un uso significativo di questi metodi di analisi della mente degli elettori, e poi di convincimento. Ma l’innovazione avanza a ritmi sostenuti. La neuropolitica oggi si avvale di due parole chiave maturate nella Silicon Valley: Big Data e nanotecnologie. Micro- sensori e webcamere diventano pervasive, spiarci mentre osserviamo una vetrina o un’immagine pubblicitaria è sempre più facile e meno costoso. Big Data significa la moltiplicazione esponenziale nella potenza dei computer per dige-politics rire e analizzare informazioni nuove: quindi allargando i test neuropolitici ad una vastissima platea di elettori, situazioni, reazioni individuali. Fino a stabilire dei trend, delle regole. Per poi confezionare messaggi politici sempre più sottili, personalizzati, suadenti, irresistibili. Può diventare realtà l’intuizione dello scrittore Philip Dick nel racconto Minority Report da cui fu tratto un film con Tom Cruise: in cui il protagonista sale sul metrò e le immagini pubblicitarie parlano a lui personalmente, interpellandolo per nome.
In Minority Report è la pubblicità commerciale che si adatta all’individuo per catturarne l’attenzione e il portafoglio. Il salto alla pubblicità politica non è difficile immaginarlo. E di fatto sta già avvenendo, non solo negli Stati Uniti ma in molte parti del mondo. Anzi, secondo il New York Times gli esperimenti più audaci avvengono “alla periferia dell’impero”. Dal Messico alla Polonia. Un reporter del New York Times, Kevin Randall, è andato a Città del Messico per osservare e raccontare uno degli esperimenti più avanzati di neuropolitica. Con cartelloni pubblicitari elettronici che esortano a votare per i candidati alle elezioni parlamentari, ma al tempo stesso osservano, studiano, riprendono e analizzano l’espressione facciale di chi osserva quei manifesti. L’insieme dei dati raccolti viene elaborato da un algoritmo, che ne ricava indicazioni su come i candidati devono adeguare i propri messaggi. “Codificazione facciale, bio-feedback, scannerizzazione del cervello” sono alcune tecniche elencate. In Messico secondo il reportage del New York Times il partito del presidente Enrique Peña Nieto fece un uso sistematico delle tecnologie neuropolitiche alle elezioni del 2012, con tanto di «misurazioni di onde cerebrali, battiti cardiaci, espressioni facciali ed alterazioni epidermiche». Sempre secondo la stessa inchiesta la neuropolitica è stata usata in Spagna, Polonia, Russia, Turchia, Argentina, Brasile, Colombia. Le maggiori società di indagini di mercato — Ipsos, Nielsen e Kantar — ammettono di padroneggiare da tempo il neuromarketing a fini commerciali ma negano di farne un uso estensivo nelle elezioni. Lo ammettono invece una società spagnola, Emotion Research Lab, ed una polacca, la Neurohm: quest’ultima ha lavorato anche per dei candidati presidenziali americani.
Il che ci riporta al quesito iniziale… ce la farà Hillary? Che la neuropolitica sia importante per un candidato donna, lo ricorda la columnist Gail Collins del New York Times. La Collins cita due studi sull’handicap femminile in politica. Il primo, individuato dall’esperta in demoscopea Celinda Lake: «Una donna deve passare agli occhi degli elettori degli esami di competenza molto più esigenti; del candidato maschio si dà per scontato che debba avere una certa competenza se è arrivato fin lì». Il secondo ostacolo, da uno studio della Barabara Lee Family Foundation: «La donna in politica deve anche essere piacevole; gli elettori non voteranno una donna antipatica mentre voterebbero un uomo sgradevole se pensano che sia all’altezza del compito». La neuropolitica c’entra davvero, con tutto il suo apparato hi-tech. Perché certe resistenze psicologiche non uscirebbero allo scoperto usando i metodi tradizionali. Per esempio in un focus group i partecipanti ad una sessione sulle elezioni, possono auto-censurarsi per non rivelare (magari neppure a se stessi) i propri pregiudizi sessisti. Che invece l’Intelligenza Artificiale può smascherare, osservandoli a loro insaputa: movimenti delle pupille, alterazioni della pelle, battito cardiaco, di fronte alla candidata che deve frantumare il “soffitto di vetro” invisibile.