giovedì 5 novembre 2015

Repubblica 5.11.15
Colpo alle tesi dei pm, così crolla il pilastro del processo sul patto
Il rischio che il cratere di Capaci sia troppo grande per entrare in una piccola aula di giustizia
di Attilio Bolzoni


UNA prima sentenza, implacabile segna il destino del processo sulla trattativa Stato-mafia. Con l’assoluzione di Calogero «Lillo» Mannino il dibattimento che si sta ancora celebrando a Palermo sembra già chiuso, finito. L’ex ministro, potente di un’Italia che non c’è più — sepolta dalle stragi e da Mani Pulite — non era un imputato qualunque. Ecco perché questo verdetto, al di là delle acrobazie in punto di diritto per decifrarlo nelle sue pieghe più nascoste e in attesa delle motivazioni del giudice, è un precedente decisivo per le sorti in Corte di Assise dell’intero processo. È più che un duro colpo: è mortale.
E non tanto per l’assoluzione in sé, ma proprio per il ruolo che i pubblici ministeri hanno attribuito a Mannino nella costruzione delle loro tesi. Era lui all’origine di quel dialogo fra apparati e boss Corleonesi che si sarebbe concluso, nella primavera di ventitré anni fa, con un patto. Era lui che era considerato un «traditore » da Totò Riina perché nel 1992, in Cassazione, non aveva garantito un buon esito del maxi processo a Cosa Nostra. Era sempre lui che, dopo l’uccisione dell’europarlamentare Salvo Lima, temeva per la sua vita. E che si sarebbe quindi rivolto al generale dei reparti speciali dell’Arma Antonino Subranni per agganciare l’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino, l’unica strada per evitare la ritorsione dei boss tutti condannati all’ergastolo. Calogero Mannino incarnava nell’indagine il punto d’inizio della trattativa Stato-mafia, la genesi. Con la sua assoluzione il processo è minato alle fondamenta.
Se accordo c’è stato fra Stato e mafia tutto era cominciato con il suo input al generale, Mannino era in qualche modo l’ispiratore della trattativa. Così si era messa in moto la macchina investigativa e informativa per mercanteggiare con Riina e i suoi macellai, così l’accusa è arrivata alla richiesta di nove anni di carcere per Mannino. Caduta per lui l’imputazione del reato di «violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario» previsto dagli articoli 338 e 339 del codice penale, quali previsioni fare sull’epilogo processuale per gli altri dieci imputati — fra i quali generali come Subranni e Mario Mori, mafiosi come Totò Riina e Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca, ex senatori come Marcello Dell’Utri, doppiogiochisti come Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito — seguendo il filo dei ragionamenti del giudice nella sentenza di Mannino in questo rito abbreviato? È evidente che la struttura accusatoria è stata disarticolata, anche se quell’assoluzione «per non avere commesso il fatto» (adottata con la formula dell’articolo 530 che scatta quando la prova «manca, è insufficiente o è contraddittoria », per capirci la vecchia insufficienza di prove) offre uno spiraglio ai pubblici ministeri per continuare a sostenere in qualche modo le loro argomentazioni: il fatto, cioè la trattativa, esiste, c’è stata. Ma è indubbio che se il personaggio principale dell’indagine — che al tempo ha attivato pezzi dello Stato per portare a casa la pelle — esce dal processo, sarà molto più difficile dimostrare il «patto» partendo solo dagli incontri segreti dei carabinieri con Vito Ciancimino agli arresti domiciliari, dalle manovre di Dell’Utri intorno a Bernardo Provenzano ancora latitante, dalle carte che raccontano come il ministro della Giustizia Giovanni Conso non rinnovò la proroga del carcere duro a più di 400 mafiosi.
Calogero Mannino era il punto di forza dell’inchiesta e si è trasformato nel punto di fragilità del processo. Un’assoluzione dell’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino — accusato di falsa testimonianza — avrebbe sicuramente fatto oggi più clamore per la portata politica di quelle polemiche di fuoco fra la procura e il Quirinale sulle sue telefonate con il Presidente Giorgio Napolitano, ma non avrebbe scalfito così a fondo l’ipotesi accusatoria. Calogero Mannino, uno dei ras della Sicilia fra gli anni ’80 e ’90, quattro volte ministro della Repubblica, accusato di concorso esterno e assolto definitivamente nel 2010, arrestato e detenuto per un anno e mezzo ma non risarcito «per l’ingiusta detenzione » per certi suoi rapporti elettorali con i boss, probabilmente diventerà — o probabilmente lo è già diventato — l’uomo-chiave dei grandi processi di Palermo.
Sono passati più di vent’anni dai massacri siciliani, da Falcone e Borsellino. E a questo punto è necessaria — inevitabile — una profonda riflessione sulle indagini avviate subito dopo quelle stragi del ’92, su un «metodo» giudiziario che non sempre riesce a raggiungere gli obiettivi che insegue, su ricostruzioni innegabilmente coerenti e rigorose ma difficili da dimostrare in una Corte di Assise. Bisogna prenderne atto, al netto di convinzioni o di suggestioni. È l’assoluzione di Mannino nella trattativa Stato-mafia che lo impone. C’è molta voglia di verità in un’Italia che conosce niente o quasi niente dei suoi morti più eccellenti. Ma le vicende degli ultimi anni, a volte, costringono a pensare che il cratere di Capaci sia troppo grande per entrare in una piccola aula di giustizia.