Repubblica 3.11.15
La storia.
Le segrete di Castel Sant’Angelo, le celle di Tor di Nona Dai tempi dell’Inquisizione a Vatileaks, le carceri vaticane hanno avuto molti ospiti illustri. Ma in tempi recenti mai una donna
Eretici, assassini e maggiordomi tutti i prigionieri di Sua Santità
di Agostino Paravicini Bagliani
LE PRIGIONI IN VATICANO sono tornate ieri improvvisamente alla ribalta, per lo stesso motivo che aveva sorpreso il mondo tre anni fa con l’ormai famoso Vatileaks. Arrestato nel maggio 2012, accusato di ripetute fughe di documenti papali riservati, Paolo Gabriele, maggiordomo di Benedetto XVI, papa dal 2005 al 2013, fu poi condannato a diciotto mesi di prigione. Ieri, invece, nel carcere vaticano è entrato non un laico, ma un prelato, monsignor Lucio Angel Vallejo Balda. Francesca Immacolata Chaouqui, anch’essa indagata, è stata invece rilasciata, ufficialmente perché ha subito collaborato alle indagini.
L’opinione pubblica si sta dunque abituando a sentir parlare di prigioni in Vaticano. Eppure fino a qualche anno fa non solo nessuno ne parlava; anche chi conosceva il Vaticano non avrebbe saputo dire dove si trovano le celle della prigione. Nessuno sapeva più nemmeno che le inferriate a fior di terra del palazzo del Sant’Uffizio, vicinissimo all’Aula delle Udienze, detta di Paolo VI, ricordano le feritoie delle carceri dell’Inquisizione romana, in cui avevano vissuto, talvolta per anni, prigionieri illustri. Come Giordano Bruno (1548-1600) e Tommaso Campanella (1568-1639), due fra i più importanti filosofi e scienziati del loro tempo. Appartenevano ambedue all’ordine dei frati domenicani.
Prima di essere incarcerato a Roma, Tommaso Campanella aveva già trascorso più di vent’anni di prigione a Napoli. Sarà rilasciato soltanto nel 1629 e visse a Roma per altri cinque anni come consigliere di Urbano VIII (1623-1644) per le questioni astrologiche. Giordano Bruno definì quel carcere «l’inferno estremo» in un sonetto che dedicò a «quell’antro di Polifemo». Da una relazione del 1610 sul Sant’Uffizio sappiamo che si trattava di «carceri strettissime per i miseri colpevoli di lesa maestà divina»; vi erano «alcune piccole e anguste celle, da dove non possono veder altro che aria attraverso finestrelle così basse». In ogni cella c’erano almeno quattro o cinque detenuti che né di giorno né di notte potevano comunicare con i detenuti delle altre celle.
Anche Francesco Pucci (1543-1597), filosofo e letterato, fu a lungo compagno di prigionia di Tommaso Campanella al Sant’Uffizio. Per essere decapitato fu dapprima trasferito in un’altra celebre prigione romana, Tor di Nona. Poi il suo corpo fu arso (5 luglio 1597), come avverrà per Giordano Bruno tre anni dopo (17 febbraio 1600), sempre a Campo de’ Fiori. Giordano Bruno dovette indossare l’abito penitenziale, poi gli misero la mordacchia per impedire che potesse parlare. Spogliato nudo, fu legato ad un palo posto sopra una catasta di legna, mentre la Confraternita di S. Giovanni Decollato cantava le litanie. Poi il Sant’Uffizio ordinò di bruciare tutte le sue opere e di metterle all’Indice dei libri proibiti.
Tor di Nona, sul lungotevere omonimo — era chiamata «la prigione del papa » — ospitò Giacomo e Bernardo Cenci, i fratelli di Beatrice Cenci, accusata di avere ucciso il padre con la complicità della matrigna Lucrezia. Beatrice fu però incarcerata a Castel Sant’Angelo, forse la più celebre fra storiche prigioni romane. Alessandro VI (1492-1513), Rodrigo Borgia, l’aveva fatta fortificare da Antonio Sangallo il Vecchio. Fu prigione fin dai tempi antichi, forse già all’epoca di Teodorico. Nel X secolo, la celebre e spregiudicata Marozia (892-955) — non esitò ad assalire il palazzo del papa al Laterano facendo prigioniero un papa, Giovanni X (914-928) — la utilizzò come prigione per rinchiudere i suoi rivali; prima di essere lei stessa vittima di congiure e di finire oscuramente i suoi giorni in una cella di Castel Sant’Angelo.
Beatrice Cenci fu decapitata insieme alla sua matrigna la mattina dell’11 settembre 1599 in piazza di Castel Sant’Angelo gremita di folla. Il fratello di Beatrice, Giacomo, fu invece squartato. Donne e uomini erano tenuti separati nelle carceri, ed anche le pene capitali erano diverse. Tra i presenti vi era anche Caravaggio, che ne fu profondamente scosso. Era con lui il pittore Orazio Gentileschi e la figlioletta Artemisia, anch’essa una futura pittrice. In ogni piano, a Castel Sant’Angelo le celle erano chiamate “segrete”. Lì era stato richiuso Benvenuto Cellini tra il 1538 e il 1539. L’artista era riuscito ad evaderne calandosi dal muro di cinta con una corda fatta con delle lenzuola. Ma, catturato nuovamente, fu ricondotto a Castel Sant’Angelo. Lui stesso racconta di aver allora disegnato, nella sua “segreta”, un Dio Padre e un Cristo Risorto.
Diverso era però anche il sistema giudiziario e penale riservato agli ecclesiastici colpevoli di reati. La decapitazione veniva per lo più eseguita a porte chiuse, e non davanti al pubblico. La pena capitale risultava così meno infamante degli altri supplizi. Lo stesso valeva per i nobili. Dopo il Concilio di Trento, nel clima della Controriforma, si sentì la necessità di provvedere alla loro rieducazione. Urbano VIII (1623-1644) istituì a Corneto un vero e proprio penitenziario nel quale «sarebbero rinchiusi i delinquenti ecclesiastici». Fu detta “Pia casa di penitenza”, ma di fatto la prigione fu a lungo chiamata Ergastolo, parola che il papa usò nella sua bolla per distinguerlo dalle altri comuni galere.
Da alcuni anni, in Vaticano la stessa prigione è riservata agli ecclesiastici come ai laici. Monsignor Lucio Angel Vallejo Balda è entrato nello stesso carcere in cui fu rinchiuso Paolo Gabriele. È una delle tante barriere che nel mondo vaticano stanno cadendo da qualche anno. Non ancora tutte però. Il carcere vaticano non ha ancora mai accolto una donna. Ieri, Francesca Immacolata Chaouqui è stata subito rilasciata.