Repubblica 3.11.15
Bruxelles dovrebbe rendere note le linee guida l’11. Lo Stato ebraico: “Così si incoraggia il boicottaggio”
In arrivo le etichette sui prodotti delle colonie Israele contro la Ue “È discriminazione”
di Fabio Scuto
GERUSALEMME L’Unione Europea diramerà l’11 novembre le nuove “linee guida” per l’etichettatura dei prodotti provenienti dagli insediamenti nella Cisgiordania occupata che vengono attualmente venduti nelle grandi catene di distribuzione europee. L’indiscrezione trapelata ieri sera da Bruxelles, è stata confermata dal Ministero degli Esteri israeliano, ma senza fornire dettagli sul contenuto di queste “linee guida”. È dallo scorso aprile che 16 ministri degli Esteri della Ue, Italia compresa, chiedono l’attuazione di queste direttive. Per i prodotti degli insediamenti colonici oltre la Linea Verde – sono soprattutto agricoli – non potrà essere più usata la dizione “Made in Israel” come avviene attualmente, ma sul prodotto dovrà essere indicata la provenienza e la zona di coltura. In Sudafrica dove l’etichettatura dei prodotti delle colonie sono chiaramente identificati dallo scorso anno, la dizione scelta è “Cisgiordania: merci israeliane”.
La nota interpretativa che sarà diffusa la prossima settimana «non è giuridicamente vincolante» e chiarirà anche a chi spetta il “labeling”, l’etichettatura: se al produttore israeliano o all’importatore europeo. Per l’Unione europea è una questione di correttezza e tutela nei confronti del consumatore, ma anche un modo per sostenere la soluzione dei “due Stati” e garantire che i consumatori non siano indotti in errore da false informazioni. L’Ue riconosce lo Stato di Israele solo all’interno dei suoi confini precedenti il 1967. Pertanto, sostengono a Bruxelles, etichettare le merci della Cisgiordania come “Made in Israel” violerebbe le leggi a tutela dei consumatori.
L’etichettatura Ue dei prodotti delle colonie israeliane in Cisgiordania «in questo momento rappresenta un bonus per la violenza palestinese, incoraggia il boicottaggio contro Israele ed è di natura discriminatoria », ha reagito a caldo ieri sera il Ministero degli Esteri ma senza commentare la data della prossima direttiva Ue sulla materia. «Israele», fa sapere un portavoce, «si è preparato diplomaticamente a questa eventualità». La decisione dell’Unione europea già in aprile aveva suscitato forti reazioni, l’allora ministro degli Esteri Avigdor Lieberman aveva paragonato i 16 ministri degli Esteri della Ue ai nazisti. L’allora ministro delle Finanze Yair Lapid ebbe una conversazione con Lady Pesc, Federica Mogherini nella quale definì la decisione una «macchia per la Ue», un appello al boicottaggio di Israele e «un processo pericoloso che potrebbe portare al disastro l’economia israeliana». In qualità di ministro delle Finanze, Lapid probabilmente sapeva che stava esagerando l’impatto a breve termine sull’economia israeliana. Ma è anche evidente che l’introduzione dell’etichettatura dei prodotti provenienti da Territori che l’Unione Europea considera illegalmente occupati, ha il potenziale di danneggiare seriamente lo Stato di Israele nel lungo periodo, innescando una valanga che potrebbe finire con un boicottaggio globale.
Nonostante la forte reazione politica con l’introduzione del “labeling”, stando alle ultime cifre e stime disponibili, in Israele l’impatto economico sembrerebbe marginale. Nel 2014 i Paesi della Ue hanno importato beni da Israele per oltre 60 miliardi di shekel (circa 14 miliardi di euro), le esportazioni dagli insediamenti ebraici che consistono in prodotti agricoli sono minuscoli al confronto. Secondo la Israel Manifacturers Association nel 2102 le esportazioni dalla Cisgiordania, da Gerusalemme Est e dal Golan verso l’Ue non hanno superato gli 80 milioni di euro.
L’Ue, parallelamente alla decisione sull’etichettatura, ha liberalizzato le esportazioni israeliane in Europa e aumentato le agevolazioni su merci e servizi prodotti in Israele. Va poi valutato anche il caso delle 14 zone industriali con 800 fabbriche e strutture agricole in Cisgiordania. Impiegano 15.000 lavoratori palestinesi. In tempi di crisi saranno i primi a perdere il posto di lavoro.