Repubblica 25.11.15
Un giorno lungo un anno per il coraggio delle donne
di Michela Marzano
DA quando, nel 1999, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha istituito la “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenze contro le donne”, ogni 25 novembre le iniziative volte a sensibilizzare l’opinione pubblica nei confronti di questo dramma sono moltissime.
INCONTRI, convegni, concerti ed eventi di ogni sorta sono organizzati in tutto il mondo. Tutti sembrano unanimi nel condannare questo fenomeno che continua a mietere vittime innocenti — quasi sette milioni secondo gli ultimi dati Istat. Tutti sembrano disposti a impegnarsi e a moltiplicare gli sforzi per contrastare e ridurre le violenze di genere e le discriminazioni. Come però ha recentemente dichiarato Michelle Bachelet, vice segretario generale e direttore esecutivo di “UN Women”, finché ci si limiterà a punire i colpevoli senza impegnarsi anche in serie politiche di prevenzione, non si riuscirà ad affrontare il problema con i dovuti strumenti. «Occorrono cambiamenti culturali per smettere di guardare alle donne come cittadine di seconda classe», ha ricordato Michelle Bachelet, insistendo anche sull’importanza dei modelli femminili proposti alle più giovani e ai più giovani.
Ma come si fa a insegnare il rispetto di tutte e di tutti quando si continua a vivere in una società in cui le differenze vengono ancora percepite come difetti e in cui ci si illude che la dignità di ognuno dipenda da quello che si realizza o meno nella vita e non da quello che si è, ossia “persone”, tutte uguali e tutte degne indipendentemente dal sesso, dal genere e dall’orientamento sessuale? Quando si capirà che, senza la promozione di una cultura della tolleranza e dell’accettazione reciproca, la violenza non sarà mai arginata?
Il problema delle violenze di genere non è solo un’urgenza, qualcosa di cui ricordarsi solo quando si è di fronte all’ennesimo dramma o in occasione del 25 novembre. È anche e soprattutto un fenomeno strutturale, la conseguenza immediata della profonda crisi identitaria che, al giorno d’oggi, riguarda non solo gli uomini e le donne, ma anche e soprattutto le relazioni intersoggettive. Per cultura e per tradizione, alcuni uomini pensano ancora di potersi comportare come “padroni” e non sopportano che le donne, “oggetti di possesso”, possano diventare autonome; in parte insicuri e incapaci di sapere “chi sono”, le accusano di mettere in discussione la propria superiorità; in parte narcisisticamente fratturati, pretendono che le donne li aiutino a riparare le proprie ferite.
Un problema identitario, quindi, che si trasforma poi in un problema relazionale e che, ancora troppo spesso, sfocia nell’odio e nella violenza. Un odio e una violenza che non si potranno combattere efficacemente fino a quando non si capirà che il problema comincia nelle famiglie e nelle scuole e che, per affrontarlo seriamente, si deve ripartire dall’educazione dei più piccoli. Le donne non sono “inferiori”, “sottomesse” e “irrazionali” per natura, esattamente come gli uomini non sono “superiori”, “padroni” o “razionali”. Le donne e gli uomini sono certo diversi, ma la diversità non è mai sinonimo di disuguaglianza. Anzi. È sempre e solo nella diversità che l’uguaglianza e il rispetto reciproco possono essere promossi.
Ormai siamo consapevoli che l’aggressività e il senso del possesso sono parte della natura umana. Sappiamo che nessuno di noi è immune dall’odio e dall’invidia e che non si potrà mai definitivamente eliminare l’ambiguità profonda che ogni essere umano si porta dentro. Ma abbiamo anche capito che la violenza, se non la si può cancellare, la si può almeno contenere e prevenire. Avendo il coraggio di fare a pezzi i pregiudizi, gli errori, i compromessi, le scuse e le banalità di cui, ancora oggi, sono impastati i rapporti tra gli uomini e le donne. Decostruendo e ricostruendo la grammatica delle relazioni affettive. Distinguendo l’amore — che regala ad ognuno di noi la libertà di essere noi stessi — dalla gelosia possessiva che obbliga l’altra persona ad occupare esattamente quel posto lì, quello che le abbiamo preparato, quello che non può disertare, nemmeno quando ha deciso di andarsene via.
È solo imparando a convivere con la frustrazione e la mancanza che si potrà poi insegnare ai più piccoli che le donne non sono né “oggetti” a disposizione per colmare il proprio vuoto né “cose” di cui ci si possa impossessare e talvolta distruggere.