Repubblica 24.11.15
Giorgio Agamben.
“Perché lo stato di emergenza non può essere permanente”
Il filosofo critica la decisione di Hollande di modificare la Costituzione “È pericoloso accettare qualsiasi limitazione della libertà in nome della sicurezza”
“Per dichiarare una guerra serve un nemico chiaramente identificabile mentre qui il nemico non si conosce in modo preciso”
intervista di Marie Richeaux
Questo testo è un estratto dell’intervista rilasciata da Giorgio Agamben a France Culture, la radio pubblica francese, che ha mandato in onda uno speciale sulla strage del 13 novembre e sulla rezione del governo invitando il filosofo a riflettere su questo tema in particolare: “ Francois Hollande ha proposto di modificare la Costituzione cambiando durata e modalità dello “ stato di emergenza” per rispondere al meglio al “ terrorismo di guerra”.
«Lo stato di emergenza non è un scudo per lo stato di diritto come ha detto qualcuno. La storia insegna che è vero esattamente il contrario. Tutti dovrebbero sapere che è proprio lo stato di emergenza previsto dall’articolo 48 della Repubblica di Weimar che ha permesso ad Hitler di stabilire e mantenere il regime nazista, dichiarando immediatamente dopo la sua nomina a Cancelliere uno stato di eccezione che non fu mai revocato. Quando oggi ci si stupisce che si siano potuto commettere in Germania tali crimini, si dimentica che non si trattava di crimini, che era tutto perfettamente legale, perché la Germania era in stato di eccezione e le libertà individuali erano sospese. Perché lo stesso scenario non potrebbe ripetersi in Francia? Quello che voglio dire è che, com’ è avvenuto in Germania, un partito di estrema destra potrebbe domani servirsi dello stato di emergenza introdotto dalla socialdemocrazia.
Bisognerebbe riflettere sulla nozione di sicurezza, che oggi si sta sostituendo a ogni altro concetto politico... La gente deve capire che la sicurezza di cui si parla tanto non serve a prevenire le cause, ma a governare gli effetti. E’ quel che avviene col terrorismo.
I dispositivi biometrici di sicurezza, che sono state inventati in Francia da Bertillon nel XIX secolo, erano pensati per i “recidivisti”, servivano cioè a impedire un secondo colpo. Ma il terrorismo è una serie di primi colpi, che è impossibile prevenire. Ciò che dobbiamo capire è che le ragioni di sicurezza non sono rivolte alla prevenzione dei delitti, ma a stabilire un nuovo modello di governo degli uomini, un nuovo modello di Stato, che i politologi americani chiamano appunto “security State”, stato di sicurezza. Di questo Stato, che sta prendendo ovunque il posto delle democrazie parlamentari, sappiamo poco, ma sicuramente non è uno Stato di diritto, è piuttosto uno stato di controlli sempre più generalizzati. È uno Stato in cui, come avviene oggi, la partecipazione dei cittadini alla politica si riduce drasticamente e il cittadino, di cui si pretende di garantire la sicurezza, è trattato nello stesso tempo come un terrorista in potenza...
Lo stato di emergenza è qualcosa che esiste da molto tempo, ma è sempre stato pensato come una misura provvisoria, per fronteggiare un evento specifico limitato nel tempo al quale si rispondeva con misure limitate nel tempo... Nello Stato di sicurezza, il patto sociale cambia di natura e degli uomini che vengono mantenuti sotto la pressione della paura sono pronti ad accettare qualunque limitazione delle libertà».
«Hollande ha detto che la Francia è in guerra, ma il terrorismo non è esattamente la stessa cosa della guerra. Siamo in guerra, ma contro chi? Perché vi sia una guerra, è necessario che vi sia un nemico chiaramente identificabile. Nel terrorismo, la figura del nemico si indetermina e diventa fluida, il terrorismo è per definizione una nebulosa, dentro la quale agiscono attori di ogni genere, compresi in prima fila i servizi segreti di stati con cui si intrattengono relazioni amichevoli.
Dire che la Francia è in guerra contro il terrorismo equivale a dire che è in guerra contro un nemico che non si conosce e che potrebbe essere chiunque. Non è con lo stato di eccezione e con i dispositivi di sicurezza che si può combattere il terrorismo, ma con un cambiamento radicale della politica estera, per esempio, cessando di vendere armi e di avere rapporti privilegiati con gli stati che direttamente o indirettamente alimentano il terrorismo».