lunedì 23 novembre 2015

Repubblica 23.11.15
Dio, l’orrore e l’eterna domanda
di Adriano Prosperi


AL tempo del Terrore si assiste a singolari rigurgiti di spiriti religiosi . Bisognerà farci l’abitudine. Il tassista che nella Roma pre-giubileo ti porta in Vaticano, meta di fiumi di turisti, si professa anticlericale ma reagisce all’idea di togliere i crocifissi dalle scuole gridando che contro le minacce pseudo-islamiche lui vorrebbe affiggerne non uno ma cento per aula.
Invece un pensoso teologo accenna alla strage parigina di Bataclan facendo sua la frase di Justin Welby, l’arcivescovo di Canterbury: «Ci sono dei momenti in cui pensi: c’è un Dio? E dov’è Dio?». È una domanda che ora conosce una rinnovata attualità davanti a una realtà sempre più invasa da immagini del male, del dolore e della morte. Quella di Justin Welby deve l’eco che ha suscitato alla alta autorità ecclesiastica che Invece un pensoso teologo accenna alla strage parigina di Bataclan facendo sua la frase di Justin Welby, l’arcivescovo di Canterbury: «Ci sono dei momenti in cui pensi: c’è un Dio? E dov’è Dio?». È una domanda che ora conosce una rinnovata attualità.
l’ha pronunziata e alla potenza della Bbc. Del resto, chi ha anche superficialmente frequentato testi e documenti della storia della vita religiosa sa bene che quella domanda è inerente alla stessa fede delle religioni monoteistiche, ne è come l’altra faccia necessaria. L’esperienza di un Dio che non risponde, che è assente, sta fissa nel cuore stesso della tradizione cristiana, nelle ultime parole di Gesù sulla croce attestate dai Vangeli, come nelle esperienze dei mistici brancolanti in quella che Giovanni della Croce chiamava la notte oscura. Tuttavia un fatto è la difficoltà personale di chi cerca il rapporto con un Dio persona e non lo trova, ne soffre le intermittenze, ne invoca la certificazione interiore e magari si rassegna a fare sua la fede di una chiesa contentandosi dell’autorità costituita e fissata in testi e tradizioni. Tutt’altro fatto è riportare l’esistenza di Dio sulla scena di un mondo che ha da tempo imparato a farne a meno. Un grande storico francese, Lucien Febvre, misurò per confronto la realtà dei suoi anni — quelli della seconda guerra mondiale — con quella del suo prediletto secolo XVI quando, secondo lui, era impossibile non credere in Dio, concepire l’idea stessa della sua inesistenza: tanta era la densità di riti, immagini, esperienze di un’epoca in cui la vita quotidiana scorreva tutta all’insegna della fede in Dio e in Cristo: dal suono delle campane ai riti religiosi alle immagini e alle parole del linguaggio comune, all’idea stessa del cielo e delle stelle non ancora turbata dalle scoperte di Galileo. La tesi di Febvre non ha retto alla ricerca storica: l’ateismo era possibile anche allora, sia pure come fenomeno isolato, come avventura intellettuale, come ritorno del materialismo degli antichi. Però è vero che di fatto non solo le forme del pensiero e dell’immaginazione ma anche le costituzioni politiche e le regole sociali erano ricavate allora da una concezione del mondo tutta religiosa. Oggi la cultura e la società moderne sono lontanissime da quella condizione. La morte di Dio annunciata dal folle ne La gaia scienza di Nietzsche è diventata sostanza della vita quotidiana del mondo sviluppato. Ci si è arrivati per gradi. Il materialismo dolente e implacabile di Leopardi precedette di poco la filosofia di Feuerbach. E l’opera creativa di Dostoevskij si concentrò sul nodo della capacità umana di fare il male che si scatena in un mondo da cui Dio è stato cacciato: si pensi alle pagine terribili sul personaggio di Stavrogin ne “I demoni^”. Gli uomini hanno ucciso Dio: e se Dio è morto allora tutto è lecito. Le conseguenze della espulsione di Dio dal mondo umano, secondo Dostoevskij sono spaventose. Quella che gli uomini hanno conquistato è una libertà illimitata di fare il male; il nichilista conseguente è Kirillov che si uccide per dimostrare al mondo intero che Dio non c’è e che l’uomo è diventato onnipotente al punto da rinunziare alla stessa vita. Ma è stato nel ‘900 davanti a Auschwitz che la riflessione sull’immane tragedia del male compiuto da una diabolica volontà di potenza ha incrinato anche la voce dei rappresentanti supremi delle religioni costituite, quelli che hanno il compito e l’obbligo di testimoniare la fede. Il pontefice cattolico Benedetto XVI, il tedesco Joseph Ratzinger che si sentì specialmente obbligato a visitare ripetutamente Auschwitz proprio perché uomo di chiesa e tedesco, si chiese: “Dove era Dio in quei giorni? Perché Egli ha taciuto?”. E tuttavia anche in questo caso si scopre come in una religione che affida il compimento della giustizia e della verità a un mondo celeste in attesa dopo la nostra morte, il silenzio di Dio non basta a incrinare la fede nella sua esistenza. La testimonianza di quel grande teologo ed eroico testimone di fede e di resistenza al nazismo che fu il luterano Dietrich Bonhoeffer ha elaborato un importante nucleo concettuale e ha lasciato un esempio personale di cosa possa diventare la fede cristiana dopo Auschwitz. Invece toccò al filosofo Hans Jonas, ebreo e tedesco, affrontare lucidamente il problema di quale sia il concetto di Dio dopo Auschwitz per chi parte da un’idea ebraica della divinità come un’entità padrona della storia, chiamata a compiere la giustizia e a tutelare quel popolo che fu sterminato senza trovare in Lui alcuna difesa. Fu Jonas che paragonò la Shoah col terremoto di Lisbona che nel ‘700 aveva offuscato la luce ottimistica del razionalismo illuministico piegando la cultura occidentale in una direzione diversa. Ma l’evento naturale del terremoto, per quanto tremendo, non era paragonabile a quello che la volontà umana era stata capace di compiere deliberatamente. Il Dio tradizionale aveva gli attributi dell’onnipotenza, della bontà e della comprensibilità: attributi insostenibili con la Shoah. Si deve dunque abbandonare questa concezione e concepire un Dio che si è “temporalizzato”, diviene insieme al mondo e partecipa al destino dell’uomo da lui creato nella lotta tra il bene e il male.
Nascerà dallo scontro di forze oggi nel mondo una nuova religiosità? Oppure, affrontando le radici del male e del dolore che oggi coinvolge direttamente anche quella parte del mondo che per secoli ha schiavizzato, massacrato e sfruttato l’altra metà degli uomini, si riuscirà a far ripartire la storia e la civiltà umana da un livello più alto? Su Dio non è difficile mettere d’accordo le tre religioni monoteistiche nate nel Mediterraneo. Gli attributi sono più o meno sempre gli stessi: tra i 99 nomi che il Corano dà a Dio ci sono quelli del “Misericordioso”, del “compassionevole”, dell’”amabile”, del “giusto”, di “Colui che ama, che aiuta”. Ma è sulla natura umana e sul modo di fare giustizia nel mondo che l’accordo appare difficile.