Repubblica 19.11.15
Dalla tragedia all’operetta così sopravvive l’eterno fascismo italiano
di Filippo Ceccarelli
Tommaso Cerno ricostruisce nel libro “A Noi!” la presenza di lungo periodo dell’ideologia mussoliniana Che, più del passato, spiega le vicende della politica di oggi
Si può pensare alla storia, ha scritto Regis Debray, come una specie di condominio per cui l’ultimo pianerottolo non assomiglia a quello sottostante, ma a quello due piani sotto. Così, per meglio comprendere il potere e i potenti di questi ultimi anni — uomini forti e soli al comando — sembra inutile soffermarsi sui pallidi, esili, sottili e prudenti capi dc della Prima Repubblica, ma tocca riandare diretti e senza indugi al fascismo.
È quanto ha fatto Tommaso Cerno in questo A noi!, impresso su una copertina d’iper grafica pop littoria, sottititolo: Cosa ci resta del fascismo nell’epoca di Berlusconi, Grillo e Renzi (Rizzoli). E per quanto sia evidente che di quel ventennio ci restano diverse cose, la novità è che forse solo un giornalista, scrittore e conduttore televisivo quarantenne — giusto l’età del premier — poteva trarre vantaggio dal tempo lungo per «riscoprire» con occhi distaccati la figura di Mussolini: «Come un biologo al microscopio ».
Perciò soffermandosi, più che sui disastrosi eventi, sui simboli, i miti, i rituali, le coreografie, gli stereotipi e i linguaggi che spesso a suon di metafora quell’esecrato regime ha silenziosamente, forse inconsapevolmente, comunque inesorabilmente trasmesso alla politica e in special modo ai leader della Seconda Repubblica: dal Cinghialone con gli stivali al Cavaliere con il Sole in tasca fino al Rottamatore futurista; senza tralasciare, nell’incalzante disamina, il razzismo e la volgarità del Senatùr o gli insulti del Buffone a cinquestelle, ritenuto alfiere di una sorta di «sansepolcrismo post-moderno».
Nel frattempo, osserva Cerno, il celebre balcone di Piazza Venezia è chiuso con un lucchetto. Ma oggi non c’è chiavistello, tanto meno copyright, che possano bloccare l’eredità del duce quanto a dispositivi di comando, spasmo di comunicazione (iconografia, musica), centralità del corpo, ricadute carismatiche, culto della personalità e indeterminatezza tra ciò che è del capo e ciò che è di tutti.
Non è questione di revisionismo. Tanto meno si tratta di scandalo o iconoclastia a buon mercato. Sia pure talvolta un po’ forzato per la foga dell’autore a tutto comprendere nel meccanismo analogico-comparativo, appare chiaro che antifascista fu l’Italia solo dal 1946 fin verso la metà degli anni 80. Poi basta, e su quella stagione si chiude una parentesi.
Forse c’entrano le morti di Moro e di Berlinguer, entrambe all’altezza del dramma geopolitico della guerra fredda. Forse in questo ignaro mussolinismo ha un peso il carattere nazionale con le sue ineffabili regolarità: a partire dalla figura della mamma (Rosa, per inciso, si chiamavano le mamme di Mussolini e di Berlusconi, oltre a quella di Andreotti) per finire con la vocazione al trasformismo e/o all’intrigo di palazzo e al tradimento. E certo gli esempi non mancano.
Del resto con la personalizzazione verticale della leadership e il revival del decisionismo ecco che la democrazia, almeno come la si intendeva nella Costituzione, tende a farsi optional, seconda scelta, o finzione. Consumata nella vergogna la «Repubblica dei partiti», il potere torna quello di prima e riemerge l’eterno fascismo all’italiana, l’inconfessabile continuità di cui hanno scritto Pier Paolo Pasolini e Giorgio Bocca. Un’attitudine mentale, uno stato latente dell’animo che si riconosce e si misura più nell’opportunismo o nell’obbedienza dei governati che non nelle tecniche di chi, ieri da un balcone con la faccia cattiva e la voce grossa, oggi con le chiacchiere e le smancerie in tv o sui social, si ostina spesso invano a governarli.
In realtà, come ha scritto Bernardo Valli, «la storia, più che ripetersi, ti insegue nella memoria quando gli avvenimenti che la ritmano hanno qualche somiglianza con quelli di un tempo tragico e remoto, rimasto inchiodato nei ricordi. Basta allungare la mano per rianimare fatti di 70-80 anni fa». Sennonché la replica di questo fascismo domestico va in scena secondo modelli sempre più degradati. Come se la storia si riducesse a operetta, eterna commedia,grottesco cinepanettone, farsa terribilmente oscena: ma troppo lontana nei suoi esiti dalla tragedia fascista.
Così fra le ricostruzioni
hard- boiled di Benito, Claretta e donna Rachele che si prendono a spintoni e a sberle a Salò e il racconto di Veronica o delle «cene eleganti» del berlusconismo terminale il congegno forse si riscalda; così come fra lo scempio di Piazzale Loreto e i servizi sociali di Cesano Boscone si frappone un’aggrovigliata disparità di destini che rende insieme più leggero e pesante ogni paragone.
Ma la grande lezione, la migliore scoperta è che l’uomo forte è in realtà assai debole. O almeno: gli stanno addosso la vita privata, la famiglia, le amanti, le brutte figure, i dossier, la malattia, la sua stessa non infrequente follia. E non si capisce mai se tutto questo sia un bene o un male; se per caso il saluto stentoreo che dà titolo al libro di Tommaso Cerno, A noi!, non si possa dirottare in un più consolante congedo: «a loro!», poveri diavoli del potere, sempre diversi e uguali nel comune destino che li aspetta al varco.
IL LIBRO Tommaso Cerno, A noi! ( Rizzoli, pagg. 307, euro 19)