lunedì 16 novembre 2015

Repubblica 16.11.15
Il ruolo dell’Italia nella guerra nuova (ma senza retorica)
La lotta ai terroristi implica una serie di conseguenze dolorose e scelte che non portano consensi
di Stefano Folli


ALL’IMPROVVISO sembrano remoti e incomprensibili i battibecchi sull’Italicum e sul caso De Luca in Campania, che pure erano quasi il crocevia irrinunciabile della politica. A Parigi la storia ha fatto uno di quei salti che cambiano lo scenario forse per sempre. Tanto che i governi e i Parlamenti ne sono sopraffatti e faticano a trovare delle categorie culturali e un linguaggio idonei a descrivere la nuova realtà. La ricerca non è semplice né rapida, in Italia come nelle altre nazioni europee. Prevale inevitabilmente un certo grado di retorica e poi c’è la forza dell’abitudine: si va nei salotti televisivi a litigare per racimolare qualche voto in più presso chi ascolta. Ma intorno tutto è cambiato.
Ha ragione il presidente del Consiglio quando chiede a tutti senso di responsabilità e incontra i rappresentanti della maggioranza e dell’opposizione. Ma al tempo stesso questa evocazione della solidarietà nazionale dovrebbe, per essere credibile, rispondere almeno al quesito che poneva ieri Eugenio Scalfari: «Poiché bisogna sgominare l’Is e i suoi capi, qual è la guerra che dobbiamo fare e vincere?». È una domanda ancora senza risposta, ma il solo porla incrina i tabù consolatori in cui la politica di ogni colore ha vissuto per decenni. Peraltro, il senso di responsabilità che viene invocato può essere paragonato solo in parte al precedente storico degli “anni di piombo”, all’indomani del rapimento di Aldo Moro e della strage della sua scorta. Allora si creò un “fronte interno”, non privo di contraddizioni, che sopportò l’urto del terrorismo brigatista. Ma quello era un avversario meno inafferrabile rispetto a oggi, più dentro i canoni eversivi classici e quindi tale da essere sgominato con strumenti di indagine e di “intelligence” tradizionali. Viceversa, in questo malinconico autunno i temi della solidarietà e della responsabilità vanno riempiti di contenuti inediti per non apparire stantii sullo sfondo dell’Europa attonita. Altrimenti il risultato è quello che vediamo in queste ore. In Francia Marine Le Pen si è affrettata a sospendere la campagna elettorale, evitando almeno per ora polemiche dirette contro il governo di Hollande. In Italia il suo emulo Salvini è invece sempre in televisione per attaccare il ministro dell’Interno e un po’ tutti i cosiddetti “buonisti”. La differenza è che la Le Pen pensa di vincere le prossime elezioni presidenziali. Invece in Italia i leghisti puntano solo a guadagnare qualche punto percentuale restando nel recinto dell’opposizione, così da avere carte migliori da spendere al tavolo con Berlusconi. È una prospettiva del tutto diversa.
Quanto ai Cinque Stelle, di fronte alle grandi tragedie internazionali non hanno mai granché da dire. Oscillano fra il silenzio e il ricorso al repertorio del complottismo più ridicolo. Perciò, anche ammesso che si crei presto o tardi nel Paese un clima di solidarietà nazionale, non si capisce quale contributo verrà da loro, che pure rappresentano oggi la più importante forza d’opposizione. Ne deriva che, al netto della retorica, la questione di come reagire all’Is è tutta nel campo della maggioranza e dunque del governo.
Ieri il presidente della Repubblica, ricordando la povera Valeria Solesin, ha assicurato che «insieme a tanti Paesi amici risponderemo con intransigenza a questa micidiale sfida». Dove il richiamo all’”intransigenza” si accompagna alla necessità di coordinare ogni azione con il complesso dei “Paesi amici”. E del resto, nel momento in cui la Francia parla di “guerra totale” allo Stato islamico, è difficile credere che il governo di Roma possa o voglia sottrarsi agli impegni multilaterali. Certo, il punto di partenza non è esaltante. L’Italia è tendenzialmente esclusa dai tavoli in cui si discutono - pur senza decidere, di solito - questioni che pure la riguardano da vicino, come l’immigrazione. Qualche settimana fa sembrava che l’impiego di quattro bombardieri sui cieli dell’Iraq fosse il biglietto d’ingresso per essere ammessi in questo club europeo più ristretto. Ma poi non se ne è saputo più niente.
La verità è che la guerra ai terroristi fatta sul serio implica una serie di conseguenze anche dolorose. Quasi sempre si tratta di assumere una linea impopolare, talvolta nel solco di un implicito stato d’emergenza e tale da comportare persino la restrizione temporanea di qualche spazio di libertà. Una simile linea non è fatta per guadagnare voti, come possono invece sperare i populisti all’opposizione. E inoltre una guerra di tipo nuovo comporta forti spese per la difesa, per l’”intelligence”, per i controlli capillari di ordine pubblico. Il bilancio statale forse va rivisto, le priorità riconsiderate. La campana di Parigi suona per tutti e a tutti richiede maturità.