mercoledì 11 novembre 2015

Repubblica 11.11.15
Roberto Perotti,
“Scriverò perché in Italia non si taglia nulla”
intervista di Valentina Conte


Basta con la politica, torno per un po’ negli Stati Uniti a fare ricerca, qui non mi sentivo molto utile
Si poteva arrivare facilmente ai 10 miliardi di risparmi, ma si sono fatti tanti pasticci

«Basta con la politica. Torno per un po’ negli Stati Uniti a fare ricerca. Forse scriverò un saggio sulla spesa pubblica in Italia e come mai non si riesce a tagliare. Ma senza intenti polemici. Non voglio che suoni come una critica implicita al governo Renzi. Sì, è vero: me ne sono andato. Ma amichevolmente. Non ho sbattuto la porta, ecco». Roberto Perotti, classe 1961, il bocconiano diventato poi professore nella sua università milanese dopo un prestigioso dottorato al Mit di Boston (relatori Dornbusch e Blanchard) e un post-dottorato a Harvard, Tel Aviv, Columbia University, è amareggiato.
L’avventura come commissario alla spending review è finita, per suo stesso desiderio. «Non mi sentivo molto utile in questo momento», ha confessato in tv lunedì sera. Da tempo il disagio montava. Fino a deflagrare alla vigilia della Finanziaria. Quella notte tra il 14 e il 15 ottobre abili manine trasformano i tagli selettivi, mirati, puntuali alla spesa pubblica, in una classica sforbiciata lineare. Da 10 miliardi si piomba a 5,8 miliardi, quasi la metà. E quasi tutti col criterio del 3%, alla Tremonti insomma. Poi ne spuntano altri 3,1 di miliardi, definiti come «ulteriori efficientamenti » nell’imbarazzato comunicato di Palazzo Chigi. Una posta messa lì per essere riempita poi.
Dilettantismo? Pressappochismo? Improvvisazione? Disorganizzazione? «Si sono fatti un sacco di pasticci», taglia corto il professore. E si intuisce sullo sfondo un rapporto non sempre fluido tra Mef, il ministero dell’Economia, e governo col suo cerchio magico di super professori consulenti. Eppure i 10 miliardi della spending erano obiettivo assolutamente alla portata, oltreché decantato da mesi, declinato nei dettagli da Perotti e dal suo compagno di viaggio Yoram Gutgeld, anche lui ora defilato. «Ci si poteva arrivare facilmente», conferma il professore.
E invece il premier Renzi in conferenza stampa scandisce che «ci sono 4 miliardi di
tax expenditures, una sorta di bonus fiscali, sui quali sarebbe giusto intervenire, ma questo vorrebbe dire alzare le tasse e noi non vogliamo farlo». Peccato che Perotti mai e poi mai avesse suggerito di tagliare per quell’entità le detrazioni. «La mia proposta si limitava a un miliardo e mezzo», ecco. Una sforbiciata a quei sussidi non più sostenibili (su una massa totale di 160 miliardi), sacrificabili senza troppi sconquassi. E invece nulla. La proposta di Perotti non passa. Gli obiettivi della spending vengono dimezzati. E soprattutto sparisce la qualità dei tagli. Così, il terzo commissario in meno di tre anni lascia, dopo Enrico Bondi (8 mesi nel 2012) e Carlo Cottarelli (un anno tra 2013 e 2014). Il secondo dell’era Renzi.
Un’uscita forse un po’ inaspettata per lo stesso Perotti. «Avevo preso un anno sabbatico dalla docenza alla Bocconi, fino a settembre 2016, proprio perché credevo di restare più a lungo. Tra l’altro il mio incarico era a titolo gratuito e senza alcun rimborso, né per gli spostamenti né per l’alloggio romano». Insomma, il professore ci credeva. Prova a fare qualche altra proposta, caduta forse nel vuoto. Poi chiede un faccia a faccia finale con il premier, sabato scorso. Renzi non si sorprende. Se l’aspetta, il malumore di Perotti è cosa nota. Ma evidentemente non ritiene di dire o fare nulla per trattenerlo. Così, «amichevolmente», un altro commissario se ne va.