Repubblica 10.11.15
Neurologia.
Quelli che scambiano gli amici per un cappello
Non riconoscono i volti, non abbinano facce a identità. E nei casi estremi confondono anche persone con oggetti. L’1 per cento degli italiani soffre di una strana sindrome. Raccontata da Oliver Sacks
Più aree del cervello sono coinvolte. Ma le ragioni del deficit restano oscure
di Letizia Gabaglio
IN PRINCIPIO FU il dottor P. L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello. È il primo paziente di Oliver Sacks, e il neurologo lo racconta nel libro che prende il titolo proprio dalla storia del professore di musica P. Eminente musicista, cantante e insegnante di valore, il dottore però non riusciva a vedere le facce di chi gli stava intorno; anzi a volte le vedeva dove non c’erano, ovvero ravvisava una persona dove c’era un oggetto: «per strada, come il buon Magoo, gli capitava di dare affettuosi colpetti agli idranti e ai parchimetri scambiandoli per teste di bambini», scrive Sacks.
Alla fine degli anni Settanta, quando Sacks si trovò per la prima volta davanti il dottor P, i casi come quelli erano considerati eccezionali. O meglio, i neurologi ne vedevano pochi e c’è voluta tutta la poesia del visionario Oliver per dare alla prosopagnosia - così si chiama il deficit che non consente di riconoscere i volti delle persone - la celebrità di una sindrome strana e affascinante diventata nelle sue mani quasi una metafora delle stravaganze che possono prendere vita nella mente umana e che i medici chiamano sindromi neurologiche.
Oggi, oltre trent’anni di lavoro sul cervello raccontano tutta un’altra storia, e i medici vedono assai spesso persone che faticano a mettere insieme una faccia, un nome, una storia. «Il numero di pazienti che soffrono di un deficit di tipo congenito o dello sviluppo, quello cioè che non dipende da traumi o malattie, è circa il 2 per cento della popolazione nel mondo», spiega Maria Pia Viggiano, professore di Neuropsicologia e Psicologia Cognitiva all’Università di Firenze, autrice di uno studio sulla prosopagnosia nella popolazione italiana pubblicato nel 2013. Con molte differenze: in Germania è del 2,47 per cento, mentre in Italia è dell’1 per cento.
Il fatto importante è che il deficit si può presentare in tante forme diverse, ma ciò che accomuna tutti è l’incapacità di cogliere il volto nella sua interezza: il malato si concentra sui particolari, vede il naso, le orecchie, i capelli. Ma l’unità del viso,e con essa l’identità della persona, non riesce a emergere. «Ci sono pazienti che non riescono ad abbinare immagini dello stesso volto, quelli che non riconoscono le facce se la scena è complessa. E cosono anche coloro che non sanno dire se una faccia appartiene a un uomo o a una donna, o non capiscono le emozioni espresse. E questa incapacità di riconoscere può riguardare anche gli oggetti», spiega ancora Viggiano.
L’esperta spiega che spesso il deficit è legato a un trauma. Ma quando è congenita o si genera nel corso dello sviluppo resta ancora per molti versi un mistero. Prima di tutto perché chi ne soffre, magari sin dall’infanzia, ha elaborato sistemi di compensazione: ha imparato a riconoscere le persone da altri tratti distintivi, diversi dalla faccia. Il modo di camminare, una cicatrice, l’altezza, la voce sono tutti indizi che, con un meccanismo inconscio, aiutano. Così, passano gli anni e i dottor P. d’Italia non vanno dal medico se non quando sono adulti e si trovano in situazioni pubbliche, che possono essere imbarazzanti.
Altro mistero è il meccanismo che genera il deficit. I neurologi sanno che ci sono aree cerebrali coinvolte nell’analisi dei volti che in questi malati non sono attivate nel modo corretto. «Alcuni studi rendono conto, poi, di alterazioni dell’anatomia del cervello in più zone. E altri hanno evidenziato che alcuni pazienti soffrono di una mancata comunicazione tra i neuroni in queste aree, con una riduzione della sostanza bianca. Purtroppo però la nostra comprensione dei meccanismi genetici, neurofisiologici e cognitivi è incompleta», sottolinea la neuropsicologa. In più, il deficit potrebbe essere ereditario: ci sono infatti famiglie che ne soffrono in diverse generazioni.
All’azione non c’è però un solo gene, ma un effetto cumulativo di diverse componenti. E questo complica le cose.
Anche perché una terapia non c’è. «Non esistono metodi o trattamenti specifici conclude Viggiano - ma si possono ottenere risultati con training mirati a compensare il deficit. In alcuni casi poi anche la terapia comportamentale ha portato a dei miglioramenti. Altri studi hanno dimostrato poi che somministrando ossitocina, un neuropeptide, o galattosio si migliora la memoria per i volti». Tutto molto sperimentale, comunque. E resta la fascinazione del complicato intreccio che ci fa scambiare una moglie per un cappello.