La Stampa TuttoLibri 21.11.15
Sulla zattera della gelosia inevitabile è il naufragio
Uno studio finora inedito in Italia del filosofo e psichiatra: la sindrome di Otello tra indagine culturale ed esame clinico
di Diego Fusaro
Si è soliti pensare che la gelosia rimandi naturalmente all’amore, di cui sarebbe, per così dire, un eccesso che si traduce in patologia del possesso.
Forse, però, a ben vedere, il delirio della gelosia andrebbe posto in relazione con l’egoismo più che con l’autentica passione amorosa. È quanto, nelle sue massime, ci suggerisce La Rochefoucauld: «nella gelosia c’è più egoismo che amore».
Si pensi anche solo alle memorabili pagine della Recherche di Proust dedicate ad Albertine, che altro non sono se non una variazione sul tema del solipsismo amoroso, accompagnata da considerazioni sul tema della gelosia.
A suffragare questo aspetto, in fondo, è il fatto stesso che il lemma «gelosia» (zhlos) rinvii al desiderio bramoso di preservare e custodire ciò che appartiene al singolo io, per ciò stesso sorgendo da un istinto tutt’altro che legato all’altruismo amoroso del donarsi all’amata. Sarà, forse, per questa ragione che nel nostro tempo dell’«amore liquido» e della precarietà affettiva, in cui la stabilità della passione amorosa è sostituita dalla fugacità del godimento autistico dell’io isolato, la gelosia si conserva, coerente con la cifra dell’epoca dell’egoismo rapace e dell’individualismo possessivo. Si rivela prossima al narcisismo più che al sentimento, all’egoismo calcolatorio che all’altruismo donativo.
Non che nel mondo premoderno la gelosia fosse sconosciuta. Tutt’altro. Le tragedie greche ce ne restituiscono un affresco grandioso. È, tuttavia, con il teatro della modernità che essa diventa passione dominante, a partire da quello che resta, in fondo, il più noto volto di questa patologia nell’evo moderno: l’Otello di Shakespeare, tragicamente in preda a quel «mostro dagli occhi verdi che dileggia la carne di cui si nutre».
L’individualismo radicale e lo spazio dell’interiorità disegnano tanto l’orizzonte di senso del moderno, quanto, a maggior ragione, della gelosia: la quale induce il soggetto ad agire non sulla base di elementi concreti e di effettivi tradimenti, bensì a causa di paure e di fantasmi che si agitano negli antri della sua interiorità, facendolo da ultimo prigioniero di se stesso.
Già l’Etica di Spinoza distingue tra effetti passivi, nei quali l’uomo è in balia degli eventi, ed effetti attivi, dei quali invece è artefice. La gelosia, proprio come l’ambizione, è una passione triste, che espropria l’uomo della facoltà del controllo di sé e lo rende vittima dei propri fantasmi. E ne dirotta l’intelligenza verso obiettivi di per sé inconsistenti, facendo della gelosia – come notava Nietzsche – la passione più intelligente e, insieme, la massima sciocchezza.
Intrecciando virtuosamente le proprie competenze culturali e filosofiche con quelle mediche, nel Novecento anche Karl Jaspers si soffermò su questa passione triste: e lo fece dedicandovi, nel 1910, uno studio che ora viene per la prima volta tradotto e pubblicato in lingua italiana, Delirio di gelosia. Un contributo alla questione: «sviluppo di una personalità» o «processo»?
L’opera di Jaspers è dedicata a un’esplorazione del «delirio di gelosia», studiato tramite l’esame – frutto di lunghe e minuziose analisi – dei vissuti di alcuni pazienti da esso affetti.
A cavaliere tra indagine culturale ed esame clinico, il lavoro di Jaspers si addentra nella vita dei pazienti, uomini e donne deliranti, in balia della passione triste della gelosia, nel tentativo di comprenderne le radici e le conseguenze.
La domanda che guida e orienta l’analisi di Jaspers potrebbe così essere formulata: fino a che punto il soggetto in preda al delirio di gelosia è ancora in grado di agire come soggetto libero e responsabile e quando, invece, diventa mera espressione di un corpo malato, vittima degli spettri che ne ottundono la mente e ne offuscano la ragione? La sindrome di Otello, come anche potremmo qualificarla, comporta il precipitare del paziente in uno stato di totale passività o resta, nel suo agire, un barlume di libertà?
Che cosa accomuna il caso dell’orologiaio Julius Klug all’insegnante Max Mohr e agli altri casi esplorati nel testo di Jaspers, tutti vittime del delirio di gelosia? Paure di avvelenamenti, soggettività eccentriche e personalità ipomaniacali, rapidità del costituirsi del «sistema delirante», molteplicità dei sintomi e delle cause: sono questi i principali elementi in comune rinvenuti da Jaspers nel suo studio; dal quale traspare nitidamente un’attenzione focalizzata soprattutto sul prodursi della rottura e della discontinuità nell’esperienza esistenziale dei soggetti che, in una sorta di analogon psicopatologico della «situazione limite», improvvisamente precipitano nel delirio di gelosia. Che è, poi, la prova, dal punto di vista clinico, che la gelosia nasce da un amore esasperato del proprio io che porta alla perdita dell’altro e, alla fine, anche di se stessi.