giovedì 12 novembre 2015

La Stampa 12.11.15
Elogio della tolleranza ma fino a un certo punto
La laicità va difesa con forza ma senza abbandonare il rispetto dell’altro e senza voler trasformare Charlie Hebdo in Carlo Magno
di Regis Debray


L’era digitale ci costringe a «ripensare tutto». Mentre la storia, offrendoci lo spettacolo di ciò che cambia, ci aiuta a distinguere ciò che non cambia. E le leggi fondamentali che guidano l’incarnazione di un collettivo umano possono essere considerate permanenti. Nondimeno, la transizione fra due mediasfere obbliga a modificare il modo di gestire questo zoccolo duro. La libertà d’espressione - passi la formula linguistica, pur abusiva per certi versi - rientra fra i fondamentali della Repubblica, ma l’esercizio di questa libertà non può più essere quello dell’epoca di Voltaire, delle diligenze e della Marina a vele spiegate, nella nostra epoca in cui c’è una parabola per ogni balcone delle palazzine e in cui ogni abitante del 93° Dipartimento [il territorio della banlieue parigina settentrionale a più alto tasso di popolazione con origini familiari extraeuropee, divenuto teatro nel 2005 dell’«autunno dei roghi», NdT] può raggiungere gli antipodi planetari con un clic.
Plantu e Daumier
Per questo il vignettista Plantu è diverso dall’illustratore Honoré Daumier (1808-1879), essendo il primo connesso in diretta con l’intero pianeta; egli padroneggia l’emissione, ma per nulla la ricezione, pur indirizzandosi in primis ai suoi connazionali lettori di Le Monde, capaci di cogliere il senso figurato di una vignetta, nella scia dell’Illuminismo e grazie alla loro istruzione. Ma a Tunisi, a Casablanca o ad Algeri, ha invece spesso il sopravvento il senso immediato e letterale, per non parlare delle contrade dello Yemen, del Pakistan, dell’Afghanistan dove pochi sanno leggere, ma dove tutti possono vedere.
Non ci sono più paratie fra qui e lì. Gli occidentali hanno perduto il loro perimetro di sicurezza. Il fuori è dentro, il dentro è fuori. Il mondo delle migrazioni è un groviglio pieno di attriti con cui occorre convivere. Condividiamo un grande appartamento collettivo dai tramezzi sottili in cui si può ascoltare e vedere ciò che accade nella stanza accanto, ma senza regolamenti condominiali chiari per tutti. [...] Per cavarsela, occorre stipulare dei gentleman’s agreements. Se esiste infatti una cortesia minima fra vicini di pianerottolo, in modo da rendere possibile la convivenza, un minimo di cortesia s’impone pure fra civiltà giustapposte e vieppiù intrecciate. Il che richiede sforzi d’ipocrisia da una parte e dall’altra, come pure in famiglia, in un quartiere, una ditta o un Paese, in modo da non rinfacciare all’altro ciò che si pensa davvero, evitando così di sfociare in conflitti generalizzati.
Chi evoca la cittadinanza, mondiale o locale, senza tenere a mente la cortesia, mondiale o locale, finisce per parlare a vanvera. Se non peggio. Non intendo dire che per ottenere la pace ed evitare sommosse o stragi occorra scappellarsi di fronte a un oscurantismo maggioritario. La parola rispetto è spregevole quando va a braccetto con l’intimidazione e con la sottomissione verso chi pensa di ottenere premi paradisiaci sgozzandoci. Ma è pregevole se la riconduciamo alla sua etimologia: respicere, pensarci due volte. Più in generale, cortesia vuol dire: reciprocità nel rispetto, o più trivialmente, scambio di favori. [...] A casa nostra, rispettiamo i vostri modi di fare. Sempre a casa nostra, voi rispettate i nostri. Al di là di ciò che si può pensare nel proprio foro interiore.
Il declino dello Stato
Non è facile far rifiorire una Repubblica laica in un mondo ogni giorno meno repubblicano di ieri, dove molti che si dicevano maghrebini si dicono ormai «musulmani», dove gli israeliani si dicono «ebrei» e gli indiani «indù»; dove crolla la barriera che separa religione e politica, quella che avevano chiaramente posto i fondatori in Egitto, con Nasser, in Israele, con Ben Gurion, in Turchia, con Atatürk, o in India, con Nehru; dove i mezzi tecnici della trasparenza cancellano le frontiere fra pubblico e privato; dove i trasferimenti in massa di popolazioni dal Sud al Nord e dall’Est all’Ovest introducono dei modi di pensare del XV secolo nelle metropoli del XXI; dove gli Stati perdono la loro centralità e talvolta persino ogni potere (in Oriente, sotto i colpi dell’Occidente intrusivo, mentre in Occidente, sotto i colpi di una società civile tribalizzata). Non c’è laicità dove manca ancora uno Stato, oppure dov’è sparito. Il suo avvento è stato sempre legato alla nascita o rinascita di una potenza pubblica. A dire il vero, abbiamo avuto torto a farne un’astrazione rimovibile e girovaga. Abbiamo costruito indebitamente il sostantivo «laicità» a partire da un aggettivo. Quest’ultimo richiede un soggetto, depositario dell’interesse generale. Sopprimendo o sminuendo quest’ultimo, vedremo tornare calche di fanatici. L’integralismo mercantile danza con il suo dirimpettaio, l’integralismo religioso.
Un miliardo di credenti
Non trasformiamo Charlie in un erede di Carlo Magno, sulla corsia di sinistra, pronto a schiacciare con disprezzo e ignoranza chi vive al di là del limes. Sarebbe imprudente. Quattro milioni di buoni cittadini nelle strade francesi, giustamente fieri di esserlo e fedeli solo alla miscredenza, sono ammirevoli. Ma non bisogna disdegnare un miliardo di credenti che non la pensano come noi. E come combattere con successo ciò che non ci siamo preoccupati di comprendere? Credo che la questione stia agitando le notti di George Bush, ma un po’ tardi.
Se l’autostima diventa disprezzo degli altri, se il ritorno alle origini sfocia nell’incapsulamento, se la fierezza sconfina nell’arroganza, si corre verso il baratro: «La malattia dei circoli chiusi», uno dei quindici mali della Curia romana indicati da papa Francesco. Auspico che i sostenitori incondizionati della libertà d’espressione, che non è mai e da nessuna parte né incondizionata, né assoluta (e ancor meno in Francia, dato che il nostro Codice penale allinea, per così dire, i nostri delitti di libertà, che sono numerosi), possano viaggiare in altri continenti dove regnano altre affettività popolari. La percezione degli altri non dovrebbe mai diventare legge a casa nostra, per nessuna ragione. Il pudore altrui non deve spodestare la nostra salacità. Così come l’altrui rapporto con il Profeta, inteso come capofamiglia e totem identitario, non può abrogare la nostra relazione disinvolta, disattivata, con il buon Dio come opzione facoltativa, una fra molte altre.
La testata di Zidane
Ma occorre pure tenere a mente che quando un altro giocatore insulta sua madre o sua sorella, Zidane gli infligge seduta stante una craniata (fatale). Il papa argentino, non violento ma latino di nascita, l’ha detto nuovamente di recente ai giornalisti: se un amico «dice una parolaccia contro mia mamma, si aspetti un pugno». In altri termini, il diritto all’insolenza e all’oltraggio non si trasforma in un dovere da esercitare dovunque, sempre e verso chiunque. Si può stuzzicare senza graffiare, disturbare senza umiliare, aprire gli occhi di qualcuno senza colpirlo al corpo. Occorre allora congratularsi con Plantu, che sa quando si va troppo in là, temperando sempre il suo «occorre osare» con un «occorre essere responsabili». Fine tuning. Ridere non significa sghignazzare. Incoraggiamo allora una pedagogia dell’umorismo, che potrebbe così divenire un atto civico di speranza e non di disperazione.
Traduzione di Daniele Zappalà