domenica 29 novembre 2015

Il Sole Domenica 29.11.15
Lettera da Ningbo
Crescita brutale dello Yangtze
Otto milioni di abitanti, infrastrutture colossali una classe media con buoni salari. E container pieni d’immigrati senza diritti
di Giorgio Barba Navaretti


Dal dodicesimo piano dell’Hotel Sofitel di Ningbo si vedono e leggono le contraddizioni della Cina contemporanea, in transizione da nazione smodatamente a moderatamente prospera (come da piano quinquennale appena varato), in pianta sotto i miei occhi, un mondo in miniatura.
Ningbo, città di secondo livello, nella regione del delta dello Yangtze, con otto milioni di abitanti, porto dalle acque profonde a duecento chilometri da Shanghai. Grattacieli e cantieri a vista d’occhio. Grattacieli belli, moderni, ambiziosi. Sotto, una strada a quattro corsie. Tutte le strade o quasi hanno quattro corsie e poi in lontananza ponti, tunnel, sempre illuminati, un’infrastruttura colossale. Le quattro corsie sono divise da uno spartitraffico pieno di leziosissime piantine, fiori colorati, bassi, multicolori, cipressini, piccoli pitosfori. Leziosità brutale: la strada e il suo spartitraffico, un ricordo vago e lontano di una civiltà piena di oggetti delicati, leggeri. Porcellane, lacche, sete, geroglifici, tetti arditi pieni di becchi e beccucci. Tutto o quasi raso al suolo per ricostruire, per lasciare il segno monumentale di questo nuovo impero contemporaneo. Dove la brutalità raggiunge il suo massimo c’è sempre un tocco di leziosità. “Ningbo armoniosa” è scritto su un vecchio muro, che forse un tempo cintava un giardino lussureggiante, e ora cantieri, molti cantieri e grattacieli che svettano.
Molto traffico, ma non drammatico. automobili nuove o seminuove, soprattutto di media cilindrata, molte di gran marca, Bmw, Lexus, Audi…. Chi c’è su quelle automobili, chi abita in quei grattacieli? Le classi medie che lavorano nella Cina moderna, arricchite da uno Stato generoso che ha trasferito a prezzo quasi risibile la proprietà delle case il cui valore è poi cresciuto con l’inurbamento. Classi medie che hanno forse buoni salari, ma soprattutto risparmiano quanto possono e comperano nuove case. Quanto della grande crescita cinese è dovuta a questi investimenti immobiliari e di infrastruttura, una crescita sfrenata di capitale, in parte fatta dallo Stato, in parte attraverso il trasferimento dallo Stato agli operatori immobiliari di terra a basso prezzo. E se le classi medie si sono arricchite attraverso il risparmio e l’accumulo di capitale immobiliare, come faranno le nuove generazioni ormai tagliate fuori dall’acquisto di una casa per i prezzi troppo elevati, almeno nelle grandi città, forse a Ningbo, certamente a Pechino e a Shanghai?
Studiare e studiare è la parola d’ordine... milioni di laureati. Su un muro al bordo della mia strada a quattro corsie un grande cartello fa pubblicità ai corsi di preparazione per i test d’ammissione delle Università americane: GRE, GMAT, SAT dicono i cartelli, unica scritta o quasi non in caratteri cinesi da qui all’orizzonte. Sola compagna, un po’ più in là, Kentucky Fried Chicken, la dimensione popolare del ponte verso l’Occidente. La strada alta, l’università americana, e quella bassa, il junk food. Populismo elitario? Incontro diversi studenti universitari in questo viaggio. Nel campus di Ningbo dell’Università di Nottingham, una delle teste di ponte delle intense relazioni sino-britanniche. E nell’Università di Zhejiang a Hangzou, altra città di 7 milioni di abitanti a due ore da Shanghai, antica capitale di questa regione.
Gli studenti non sono tranquilli, non pensano di avere davanti a sé una carriera facile, quella che ci aspetteremmo che fosse riservata a tutti i laureati delle buone università in un Paese in così forte crescita. I laureati sono tanti, forse troppi e l’economia moderna non è in grado di assorbirli. Come il Paese avesse deciso di costruire e sviluppare il capitale umano per un’economia che non è ancora pronta ad assorbirlo. Eppure tutta l’infinita e scintillante modernità che mi circonda arriva fino a Ningbo partendo dai meravigliosi grattacieli di Shanghai come fosse una modernità dell’hardware, le case e le infrastrutture, ma priva del software: gli ingegneri, gli economisti, i manager non sempre sanno che fare.
Sotto i miei occhi non ci sono solo le classi medie. Proprio di fronte all’albergo lo spartitraffico si allarga e dei muri di cartongesso delimitano un’area, in terra battuta, piena di rifiuti. In fondo c’è una specie di capanna, fuori un passeggino, e una donna che stende dei panni. Chi vive nello spartitraffico? Dove sono i poveri, i visibilmente poveri di tutte le città del mondo? Nascosti nei container sui cantieri? Protetti da muri di cartongesso in aree visibili solo dal dodicesimo piano? Nelle città cinesi non si vedono o quasi mendicanti, non ci sono baraccopoli. La brutalità è una brutalità di cemento, movimento, rumore, rapidità non di miseria. La miseria, la vedo solo laggiù nello slargo dello spartitraffico. La crescita cinese ha tolto dalla povertà milioni di persone, anche se la disuguaglianza è per forza aumentata. Ma poveri ce ne sono ancora moltissimi, dove? Forse in altre regioni, non nel ricco delta dello Yangtze dove l’aspettativa di vita alla nascita è pari a quella inglese.
Di fronte, oltre le quattro corsie, un grande cantiere. Container impilati uno sull’altro: le abitazioni degli immigrati, la forza lavoro immensa che ha costruito la Cina contemporanea. Un’economia fondata sullo spostamento della forza lavoro ha mantenuto in vita e ancora ha in essere un sistema come lo Hukou, costruito per evitare la mobilità: le popolazioni urbane in città, quelle rurali in campagna. Solo nel luogo di origine i cinesi hanno accesso a servizi di base come casa, istruzione, sanità. Gli immigrati possono spostarsi, ma non hanno diritti, non possono avere l’ambizione di costruirsi un futuro dove lavorano. Vivono nelle baracche e rimangono legati al cantiere o alla fabbrica. Ora il sistema è in corso di riforma. Ma il paradosso rimane, la Cina contemporanea è stata costruita dall’inurbamento di popolazioni rurali, che inurbandosi perdevano i loro diritti di cittadinanza.
Più in là, un’infinita distesa di edifici bassi, le fabbriche. La ricchezza cinese è fondata sulle fabbriche e sulle esportazioni, oltre che su infrastruttura e real estate. Fabbriche alimentate da milioni di lavoratori, i maggiori produttori di valore aggiunto industriale del mondo. Ma ora questo processo ha raggiunto un limite: la riserva di lavoro a basso costo è finita. Soprattutto nelle regioni più avanzate intorno a Shanghai, il costo del lavoro è cresciuto moltissimo. La riserva delle campagne si è esaurita. In parte per l’invecchiamento della popolazione, la politica demografica di un solo figlio; in parte perché i giovani che arrivano in città non sono più interessati a lavorare in fabbrica. La manifattura non è più il simbolo della modernità di un tempo. I nuovi idoli non sono gli assemblatori di computer come Foxconn o le infinite linee di cucitori di vestiti. I nuovi idoli sono Alibabà, Huawei e la telefonia mobile, l’iphone (ma non il suo assemblaggio, appunto fatto da Foxconn), i grandi magazzini pieni di luccicanti prodotti, i monomarca di Cartier, Dolce e Gabbana o Gucci. È troppo siderale la distanza tra le luci di Cartier sulla Nanjing Avenue di Shanghai e la linea di una fabbrica. I giovani non vogliono più lavorare, hanno modelli diversi dai loro genitori.
L’industria cinese è arrivata a un punto in cui deve trasformarsi, passare da una crescita fondata sulla quantità, ossia investimenti e forza lavoro, a una crescita fondata sulla qualità e sulla ricerca. Certo ci sono anche industrie alla frontiera e in molte attività ci sono segnali di un aumento rapido della produttività, Ma il cuore della produzione industriale del Paese è comunque fatto di infinite aziende senza marca che trasformano beni da esportazione di bassa qualità. Nella massa industriale del paese l’high tech non c’è.
Intanto la leziosità brutale che si ammira dal dodicesimo piano del Sofitel ci ricorda comunque quanti straordinari passi avanti siano stati fatti fin qui. E che i semi di modernità piantati e già ben cresciuti potranno forse trasformarsi in un processo di crescita più equilibrato e sostenibile. Ma allo stesso tempo ci fanno vedere delle contraddizioni profonde che richiedono trasformazioni che non è detto che la Cina saprà gestire nel suo prossimo futuro.