domenica 22 novembre 2015

Il Sole Domenica 22.11.15
Elzeviro
La Bibbia? Non era Sacra
Secondo Michael Sattlow ebrei e cristiani hanno riconosciuto l’autorità del testo biblico solo dopo il III secolo dell’era volgare
di Giulio Busi


Provate a dirlo senza parole. Anzi toglietele, le parole, dalla vostra vita, se siete capaci, anche solo per un attimo.
In camere smaltate di testi, con gli occhi chini su piccoli quadranti luminosi, le lettere luccicano, affiorano e si dileguano. Frasi sui vestiti, monogrammi su borse e scarpe, insegne, etichette, loghi, un fiume alfabetico ci avvolge. E in questo vociare, a cosa dare retta, chi sa imporsi, chi scrive più forte degli altri?
Michael Satlow, che è professore di studi giudaici alla Brown University, ha deciso di vedersela con il Testo con la maiuscola. Capito quello, avrà pensato, risolto il problema: dall’autorevolezza assoluta ai piccoli tweet di tutti i giorni, si scenderà solo di grado e d’intensità, per la scala di scritti sempre più piccini e insignificanti.
Perché la Bibbia è così importante nel mondo occidentale? Qual è il segreto di queste vecchie storie, lontane da noi per origine e per mentalità, e che pure riescono ancora a dire la loro, a chi ci crede e anche a chi, non credendoci, fatica ad accantonarle con un semplice diniego, con una scrollata di spalle?
E se pensavate di sgattaiolare alla chetichella dall’universo scritto, eccovi serviti. Come la Bibbia divenne sacra è un librone di oltre quattrocento pagine, come a dire che al Testo ci si sottrae, se mai è possibile, solo a suon di parole. La tesi di fondo, l’anticipiamo qui perché è Satlow stesso a enunciarla già nell’introduzione, è che santa e indiscutibile la Bibbia lo è diventata tardi, molto dopo di quanto comunemente si pensi. Altro che libro infallibile, le storie di Mosè & Co. avrebbero alle spalle una vita un po’ grama, un’esistenza quasi stentata. Letta da pochi, copiata dagli scribi più per orgoglio di casta che per consenso comune, la Scrittura avrebbe conquistato il ruolo che le attribuiamo oggi quando ormai il mondo greco-romano stava sfiorendo.
«Gli ebrei e i cristiani - scrive Satlow - hanno in origine riconosciuto ai testi che costituiscono la nostra Bibbia solo un’autorità di carattere molto limitato e specifico, e ciò fino a buona parte del secolo III E.V. e oltre». L’affermazione è d’effetto, destinata a metter di malumore parecchi credenti. Anche lo storico, d’acchito, non ci si ritrova. Disagio per altro previsto dall’autore, e di per sé non dannoso.
I libri provocatori servono a molti scopi. A farsi notare, o a far pensare, o a entrambe le cose. Certo è che Satlow difende la propria teoria con capacità retorica e con un bel piglio narrativo, così che il volume, se non del tutto convincente, riesce di gradevole lettura, e vivace.
Bisognerà per prima cosa chiarire cosa s’intenda, in questo caso, per Bibbia. Satlow prende l’accezione larga, di Vecchio e di Nuovo Testamento, e studia la ricezione giudaica assieme a quella cristiana. Per meglio dire, i primi ottocento anni, o giù di lì, la Scrittura ebraica se li è fatti da sola, giacché il cristianesimo ancora non esisteva.
Ma sarebbe stata una lunga vicenda di narrazioni e di leggi in cerca di legittimazione. Ci sarebbe insomma un divario, e ampio, tra i racconti biblici e la realtà storica, laddove il testo sacro, che ancora sacro non era, avrebbe espresso il dover essere, il sogno normativo di una élite acculturata, mentre la vita quotidiana di gran parte degli ebrei sarebbe ruotata attorno al culto e alla devozione spicciola, ritmata da bisogni e da voci collettive affidate all’oralità. Secondo Satlow, «non c’è nulla di naturale in una comunità basata sulla scrittura e sulla lettura di testi. In tutta l’antichità abbiamo notato il carattere marginale dei testi, anche se custoditi nei centri stessi del potere». Non c’è dubbio che per la fase più antica, l’approccio minimalista dell’autore abbia buone probabilità di successo. Ne sappiamo così poco dell’Israele pre-esilico, ed è così difficile incrociare racconti biblici e ritrovamenti archeologici, che lo spazio speculativo rimane assai ampio.
Secondo Satlow, l’idea che il giudaismo sia stato sin dal principio una religione del libro sarebbe insomma un anacronismo, fondato, da un lato, sull’immagine strumentale che la stessa Bibbia offre a proprio vantaggio - una norma divina vincolante per tutto il popolo - e, d’altro lato, sulla più tarda visione dei rabbi. «L’idea che i testi possiedano un'autorità normativa in ambito personale è in gran parte un'intuizione rabbinica».
Eppure, a costo di rischiare il paradosso, è Satlow stesso che pare qui anacronistico, poiché proietta all’indietro la normatività rabbinica e, naturalmente, non riesce a trovarla. Che l’accesso alla cultura scritta, nel primo millennio a.e.v., fosse prerogativa di pochi, è fuor di dubbio. Ma è anche verosimile che quei pochi, abituati a mettere tutto nero su bianco, fossero capaci di dialogare con chi leggere non poteva, e sapessero istruirlo e guidarlo. Il problema del testo sacro, e della sua autorevolezza, non può esser slegato, nel mondo arcaico, dal tema della cultura templare e del sacerdozio. L’alternativa non è, tout court, tra cultura scritta e cultura detta. Dall’una all’altra esistevano cammini intermedi, e figure professionali di mediazione, così che un testo riusciva a vivere, e a far vivere, oltre la barriera dell’alfabetizzazione. Che la Bibbia sia solo esercizio letterario, una sorta d’imparaticcio per scribi che dovevano impratichirsi nell’arte loro, è ipotesi accattivante ma inverosimile.
E diviene insostenibile mano a mano che si scende verso tempi più recenti.
Secondo Satlow, la traduzione greca dei Settanta sarebbe stata pensata per aggiungere un volume la biblioteca di Alessandria e non per dare alimento alla comunità della diaspora, che aveva bisogno di leggere e studiare la Bibbia nella lingua dell’ellenismo. Una curiosità d’eruditi, insomma, e neppure tanto bravi, perché il greco sarebbe stentato e troppo letterale. Argomento, questo della letteralità, che prova tuttavia il contrario di quel che pensa il nostro, giacché i traduttori giudeo-alessandrini il greco lo sapevano, e bene, ma vollero restare fedelissimi a un testo ebraico già autorevole e normativo.
Che il circuito di significati e d’influssi tra comunità e testo biblico sia complesso e a volte enigmatico è vero, e Satlow fa bene a intessere la sua prosa di dubbi e di distinguo. Che la tirannia delle parole scritte sia a tratti fastidiosa, è altrettanto certo.
Letta, detta, recitata, vergata a calamo, portata sulla fronte a modo di memoriale, la Bibbia non si lascia però metter quieta così facilmente.
Michael L. Satlow, E il Signore parlò a Mosè. Come la Bibbia divenne sacra, Traduzione di Massimo Scorsone, Bollati Boringhieri, Torino, pagg. 446, € 26,00