Il Sole Domenica 15.11.15
Geologia
Storia del tempo profondo
In base al racconto biblico nel 1654 si calcolò che la terra fosse nata nel 4004 a.C.
Ecco come si capì che era molto più antica
di Franco Giudice
Freud non aveva dubbi. In una prospettiva psicoanalitica, come scrisse in un articolo del 1916, la storia della scienza è una storia di umiliazioni inferte all’uomo e al suo ingenuo amor proprio. E a provocare queste autentiche ferite narcisistiche sono state soprattutto tre grandi rivoluzioni intellettuali: quella di Copernico, che ha privato l’uomo della sua posizione centrale nell’universo; quella di Darwin, che ha inserito l’uomo nel processo evolutivo del regno animale; e quella infine dello stesso Freud, che si attribuiva il merito di aver dimostrato che l’Io non è padrone nemmeno della propria interiorità. Dal suo elenco tuttavia – come ha osservato Stephen Jay Gould – Freud ometteva una quarta rivoluzione che fu in realtà la seconda in ordine storico e che, pur non essendo associata a un singolo autore, meritava certamente di farne parte: la scoperta del tempo profondo della Terra. Essa si è rivelata tanto dirompente quanto le altre, poiché ci ha costretto a riconoscere non solo che la storia della Terra precede di gran lunga quella dell’uomo, ma anche che la natura stessa ha avuto una storia sua propria.
La complessa vicenda di questa rivoluzione, in parte già ricostruita da Paolo Rossi (I segni del tempo, Feltrinelli, 1979), è ora al centro del libro di Martin J. S. Rudwick, che rappresenta una splendida e accessibile sintesi delle ricerche cui si dedica da oltre quarant’anni. E che ha un ulteriore merito: raccontare una storia, quella appunto della scoperta del tempo profondo, poco nota al grande pubblico e spesso ridotta a una sorta di preludio alla teoria della evoluzione di Darwin. Ma che invece, secondo Rudwick, «è del tutto indipendente da Darwin e da ogni altra teoria evoluzionistica».
Il viaggio nel tempo che siamo invitati a compiere inizia nel 1654, quando James Ussher, arcivescovo anglicano di Armagh, nell’Irlanda del Nord, fissò come data della Creazione il 23 ottobre del 4004 a. C. Ussher non fu l’unico a stabilire una data precisa per la Creazione. Durante il XVII secolo, vennero scritte intere biblioteche sull’argomento, suscitando aspre controversie, cui presero parte personaggi insospettabili come Newton. Il risultato fu una girandola di cronologie, tutte in competizione tra loro, ma tutte concordi nell’attribuire al mondo una storia di circa seimila anni. Che era però prevalentemente umana, poiché la natura vi faceva da scenario quasi immutabile per il destino degli uomini e l’iniziativa divina.
Le scale temporali elaborate dai cronologisti, sulla base di dati ricavati dalle fonti scritte, erano condivise anche dai filosofi naturali che valorizzavano invece ogni evidenza empirica, come quella fornita dai reperti fossili. Lo dimostra il caso di Robert Hooke, il curatore degli esperimenti della Royal Society, e del naturalista danese Niels Stensen (meglio noto come Stenone), attivo presso la corte dei Medici in Toscana. Per entrambi i fossili non erano sostanze inorganiche, come per lo più si supponeva, bensì resti di corpi una volta realmente vissuti e poi pietrificatisi a causa delle diverse alterazioni subite dalla Terra nel corso della sua storia. Una storia però che s’inseriva ancora nei tempi del racconto biblico.
Dalla seconda metà del XVIII secolo tuttavia, come fa notare Rudwick, le ricerche sul campo dischiusero una nuova prospettiva. Le rocce esplorate e descritte in diverse parti d’Europa mostravano che i vari strati di cui erano composte risalivano a periodi differenti; che i fossili si trovavano soltanto nelle rocce di più recente formazione; e che in esse non si rinveniva alcuna traccia di resti umani. Tutti indizi insomma che suggerivano una cosa ben precisa: la Terra doveva essere molto più antica di quanto si era ritenuto.
Benché fosse ormai evidente che bisognava pensare in termini di centinaia di migliaia di anni, o addirittura di milioni, difficilmente però i naturalisti fornivano una stima quantitativa dell’età della Terra, almeno non pubblicamente. Così, il naturalista francese Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon, nel manoscritto delle sue Epoche della natura (1778) ipotizzava un’età di quasi tre milioni di anni, anche se poi nell’opera a stampa ragioni di cautela lo portassero a ridurla a circa 75.000 anni. Non stupisce quindi che, nell’individuare una successione di sette “epoche” o di momenti significativi nella storia della Terra, egli collocasse la comparsa degli esseri umani soltanto nell’ultima epoca. Buffon infatti rendeva esplicito ciò che altri naturalisti sospettavano già: il nostro pianeta aveva alle spalle un profondo passato, la maggior parte del quale era stato completamente preumano. Ma fino a che punto la Terra, per un tempo così sterminato, era stata significativamente diversa dallo stato attuale? La vita aveva avuto una vera storia? E soprattutto: sarebbe stato possibile conoscere cosa era accaduto prima dell’arrivo dell’uomo sulla scena del mondo?
Le risposte a tali quesiti, racconta Rudwick, arrivarono da una rinnovata attenzione per i fossili, ed ebbero come protagonista un giovane studioso di provincia approdato a Parigi nel 1795 e destinato a un’inarrestabile ascesa negli ambienti scientifici della capitale: Georges Cuvier. Applicando le sue straordinarie conoscenze di anatomia comparata allo studio dei fossili, Cuvier sosteneva che appartenessero a specie diverse dagli animali viventi e con ogni probabilità estinte. Erano cioè espèces perdues, come il mammut siberiano e il mastodonte americano, o come il mosasauro, un enorme rettile marino, e lo pterodattilo, un rettile volante. Avevano popolato «un mondo precedente al nostro», finché un’improvvisa e violenta catastrofe non le spazzò via per sempre. La storia della Terra e quella della vita, secondo Cuvier, erano intrecciate e scandite da eventi di questo tipo, che ne spiegavano la direzione e la discontinuità.
La “resurrezione” da parte di Cuvier di uno stravagante zoo di animali estinti fu un evento di grande impatto. E agli inizi dell’Ottocento diede luogo a una vera e propria moda: la caccia agli esemplari fossili. Soprattutto in Inghilterra, dove si distinse una giovane donna di nome Mary Anning, che si conquistò la ribalta con la scoperta del teschio di un ittiosauro su una scogliera calcarea nel Dorset, e poi di un fossile di plesiosauro quasi completo. Ulteriori testimonianze di specie perdute, che si aggiungevano a quelle già identificate da Cuvier, e che trovavano una vivida illustrazione in un acquarello dipinto nel 1830 dal geologo inglese Henry De la Beche: «una scena dal tempo profondo» che, per la prima volta, raffigurava tali specie nel loro presunto habitat.
La storia della Terra delineata da Cuvier ottenne un consenso quasi unanime tra i geologi. Tranne che in un caso: quello di Charles Lyell, che sfidò la sua visione, sostenendo che non esisteva alcuna prova che la superficie terrestre nel passato fosse stata trasformata da improvvise catastrofi. Anzi, come spiegava nei suoi Principles of Geology (1830-1833), era vero piuttosto il contrario: ogni cambiamento geologico era il risultato di processi graduali e uniformi operanti nel corso di tempi immensamente lunghi e tuttora in azione.
Per i sostenitori di queste due teorie, il filosofo di Cambridge William Whewell, che nutriva un forte interesse per la geologia, coniò due neologismi: «catastrofisti» e «uniformisti». Al contrario di quanto spesso si afferma però, tiene a precisare Rudwick, le loro posizioni non furono mai considerate del tutto inconciliabili. Molti geologi riconoscevano per esempio che processi come la sedimentazione, l’erosione e il vulcanismo fossero dovuti a cause ancora osservabili nel presente. Ma poiché nessuna “causa attuale” sembrava in grado di spiegare i depositi alluvionali di ghiaia e argilla o i cosiddetti massi erratici, essi convenivano che, almeno in questi casi, bisognasse ricorrere all’azione di immani cataclismi. Così, intorno alla metà del XIX secolo, si arrivò a un compromesso: la Terra aveva avuto una storia davvero movimentata, governata da leggi costanti tuttora attive, ma punteggiata anche di eventi catastrofici globali. Inoltre, erano tutti convinti che il tempo profondo della Terra ammontasse come minimo a diverse centinaia di milioni di anni o forse perfino a miliardi.
Dagli anni sessanta dell’Ottocento, tuttavia, proprio la durata di questo tempo diventò oggetto di disputa, e a scatenarla non fu un geologo, bensì un fisico: William Thomson, futuro Lord Kelvin. Basandosi sulle leggi della termodinamica, all’epoca da poco formulate, e sulle stime correnti del progressivo raffreddamento del Sole, Kelvin affermò che l’età della Terra non poteva superare i cento milioni di anni. Una cifra incompatibile con i tempi lunghi richiesti sia dall’uniformismo di Lyell sia dalla nuova teoria dell’evoluzione di Darwin. E che per quasi quarant’anni ebbe lo stesso effetto paralizzante che la cronologia biblica aveva avuto sulla geologia del Seicento. Dopo il 1903 però, con la scoperta della radioattività, i rigorosi calcoli di Kelvin si sarebbero rivelati privi di significato: lo studio del decadimento radioattivo di alcuni elementi, come per esempio gli isotopi dell’uranio, ha stabilito che l’età della Terra è di circa 4,5 miliardi di anni.
Martin J. S. Rudwick, Earth's Deep History: How It Was Discovered and Why It Matters, University of Chicago Press, Chicago, pagg. 360, $30,00