Il Sole 29.11.15
Due scenari per il nostro futuro
Sulle conseguenze del terrore
di Luca Ricolfi
Che cosa cambierà nelle nostre vite?
È una domanda che ci facciamo in molti, dopo l’attentato di Parigi. Credo che per tentare una risposta si debbano distinguere almeno due scenari possibili. Nello scenario A (il meno negativo), nei prossimi anni si registrano attentati relativamente rari, non concentrati in un singolo Paese, e il terrorismo costituisce un problema soprattutto perché i media amplificano le comprensibili paure della gente. Nello scenario B (il peggiore) gli attentati sono frequenti, diffusi, con alcuni Paesi occidentali nettamente più esposti di altri.
Nello scenario A (il meno drammatico), sono soprattutto cinque le conseguenze che mi pare ragionevole attendersi.
Un (modesto) rallentamento della crescita, dovuto alla contrazione del commercio internazionale e dei flussi turistici.
Un rallentamento del processo di trasferimento della sovranità dagli stati nazionali alle entità sovranazionali;
Un rafforzamento politico della maggior parte dei governi nazionali in carica.
Un aumento della spesa e dell’indebitamento pubblico, con lievi effetti sui tassi di interesse sui titoli di stato;
Un qualche restringimento delle nostre libertà e dei nostri diritti, come la privacy, la libertà di movimento, le garanzie nel processo, la possibilità di controllare il potere politico e amministrativo.
Ben più radicali, invece, appaiono i cambiamenti che è lecito attendersi nello scenario B, quello nel quale gli attentati sono frequenti. La differenza è che, in questo secondo scenario, a cambiare non sarebbero solo le condizioni esterne della nostra vita, ma anche la nostra testa, la nostra cultura, ovvero i nostri modi di affrontare la vita e guardare il mondo.
Se gli attentati non sono diretti verso obiettivi militari, istituzionali o simbolici (come nel terrorismo classico, compreso quello delle Brigate Rosse negli anni ’70), ma si indirizzano contro persone normali, colte nei gesti della vita quotidiana, e in più lo fanno con elevata frequenza, allora nelle nostre menti non può non verificarsi una sorta di “salto quantico”. È il salto dalla percezione di un rischio astratto e remoto a quella di un rischio concreto e, per così dire, in servizio permanente effettivo, ovvero sempre e comunque in agguato. Di un simile salto io stesso ho un ricordo piuttosto vivido, risalente agli anni ’70 e ’80: quando il terrorismo ebbe a mostrare il suo volto “stragista”, dalla Banca dell’Agricoltura al treno Italicus, dalla strage di Piazza della Loggia a quella della stazione di Bologna, molti di noi cessarono di vivere il pericolo terrorista come un’eventualità teorica (la classica tegola in testa, che può capitare a chiunque in qualsiasi momento), per sentirlo invece come una possibilità reale e molto concreta, capace di modificare piani di vita e stati d’animo, ad esempio in occasione di un viaggio o della partecipazione ad un evento pubblico.
Ma quali sarebbero, oggi, le conseguenze dello scenario B?
Sul piano politico-culturale, non sembra azzardato immaginare un ritorno in grande stile di politiche isolazioniste, supportate dal consenso popolare. È molto verosimile che, a fronte di una presenza costante del terrorismo nella nostra vita quotidiana, si affermi l’idea che i danni della globalizzazione siano (per noi) maggiori dei suoi vantaggi, e che sia saggio non interferire nella vita di altri popoli, indipendentemente dal fatto che tale interferenza significhi campagne militari, ingerenze umanitarie, scambi commerciali, circolazione delle persone. Altrettanto verosimile è l’ipotesi che, di qui a qualche anno, vedano una larga diffusione modelli di protezione di tipo privato, sia in chiave anti-terroristica, sia in chiave anti-criminalità. Se lo Stato non si dimostrasse capace di garantire elevati standard di sicurezza, non è difficile immaginare che cresca la percentuale di privati cittadini armati (ed autorizzati ad usare le armi) e si affermino agenzie ispirate alle più diverse esperienze, da quella di Israele a quelle di autodifesa comunitaria.
Infine, last but not least, le conseguenze economiche. Nello scenario B, quello di attentati ad alta frequenza, quel che ci si può attendere non è solo un crollo del turismo estero, una drastica riduzione degli scambi commerciali, un ulteriore rallentamento della crescita delle società avanzate. Quel che non mi sento di escludere è un sostanziale cambiamento di politiche, specie in Europa.
Uno di essi è puramente ipotetico, e potrebbe consistere in un lento abbandono della filosofia mercantilista oggi dominante, con conseguente passaggio da modelli di crescita trainata dalla domanda estera, a modelli di crescita sostenuta dalla domanda interna.
Un altro cambiamento, in parte connesso al precedente, è invece già in atto in molti Paesi europei, e potrebbe subire una pericolosa accelerazione ove a prevalere fosse lo scenario B. Tale cambiamento consiste, in sostanza, nella rinuncia di fatto al risanamento dei conti pubblici, e in un ricorso crescente all’indebitamento. È quello che l’Italia sta già facendo con la Legge di stabilità (largamente finanziata in deficit), e con l’invocazione della “clausola migranti” non già per alleggerire la pressione fiscale sulle imprese (abbassamento dell’aliquota Ires), bensì per finanziare nuove spese, presentate come strategiche per la lotta al terrorismo.
Si tratta di un gioco alquanto scoperto, e decisamente pericoloso. Già così, ovvero senza clausola migranti, è assai dubbio che il nostro rapporto debito-Pil, che quest’anno toccherà il massimo storico, cominci a diminuire nell’anno che verrà. La promessa di una riduzione del rapporto debito-Pil nel 2016 poggia su piedi d’argilla: la previsione di una crescita del Pil reale dell’1,6% (formulata prima degli attentati di Parigi) non sconta il previsto rallentamento dell’economia mondiale; la scommessa su un tasso di inflazione dell’1% appare ottimistica alla luce della dinamica attuale dell’inflazione (fra lo 0,2% e lo 0,3%); la dinamica del debito pubblico, secondo gli ultimi dati della Banca d’Italia, resta superiore a quella necessaria per ridurre il rapporto debito/Pil, anche nell’ipotesi che il Pil reale e il livello dei prezzi crescano ai ritmi auspicati dal governo.
Così stando le cose, il rischio è che la lotta al terrorismo inneschi una catena di eventi ben poco rassicurante. I governi chiedono all’Europa il permesso di fare più deficit per pagare le spese militari, il rafforzamento della sicurezza interna, la gestione dei migranti, la “cultura” in chiave anti-terrorista (?!). La crescita rallenta, già solo come conseguenza del minore interscambio commerciale. I conti pubblici peggiorano. I Paesi più indebitati (Grecia, Italia, Portogallo) tornano nel mirino dei mercati. I tassi di interesse sul debito pubblico ricominciano a salire, appesantendo ulteriormente i conti dei Paesi più vulnerabili.
Non è difficile immaginare il finale di questa storia: il debito aggiuntivo che i nostri governi contraggono oggi sarà, in un modo o nell’altro, pagato dai giovani e dalle generazioni future. Forse, anziché elargire un bonus di 500 euro a chi oggi compie 18 anni (uno degli ultimi annunci di Renzi), meglio sarebbe preoccuparsi di evitare a quei medesimi giovani di trovarsi, fra qualche anno, a doverlo restituire con gli interessi.