domenica 29 novembre 2015

il manifesto 29.11.15
Jihadismo, regimi e zone grigie
Analisi. L’elementare distinzione tra ‘credo islamico’ e ‘terrorismo islamista’ viene quasi criminalizzata. Eppure l’islamismo radicale e il suo sviluppo in reti transnazionali del terrore ha una precisa origine socio-politica – espressione di dissidenza violenta all’interno di società arabe e musulmane in opposizione a governi repressivi
di Marina Calculli, Francesco Strazzari


Sgonfiatasi la retorica che ha permeato gli attentati di Parigi e i loro decorsi sicuritari, occorre ripensare ad alcuni problemi di messa a fuoco che la narrazione degli eventi ha generato. Non si tratta tanto di far luce sulla diffusione di sentimenti islamofobi.
Quello che ci preme analizzare è piuttosto il rapporto tra potere e narrazione mediatica, nel gioco di specchi amplificato dalla forza comunicativa che la violenza terrorista esercita nella società dell’informazione e per cui lo scomparso René Girard avrebbe parlato di ‘crisi mimetica’ e ‘capro espiatorio’. Più precisamente, colpisce il modo in cui la vulgata mediatica esoneri da un rendiconto delle responsabilità politiche gli effettivi detentori di queste ultime – i governanti e le loro alleanze – dirottando i meccanismi di attribuzione della colpa su un credo religioso, un insieme presunto di ‘valori’, una civiltà aliena.
Nello spazio comunicativo ci si mette ad incalzare i turbamenti di coscienza dei ‘musulmani’, accusati di mimetizzarsi in una ‘zona grigia’: uomini e donne rei di non di non dissociarsi da una violenza cui mai si sono associati o persino di non schierarsi con i ‘coraggiosi leader arabi’ impegnati nella guerra al terrore.
Curiosamente, questa eloquenza che si accanisce verso il basso, fin sui più vulnerabili (i rifugiati in fuga dai tagliagola), fa da contraltare all’afasia nell’incalzare l’altra ‘zona grigia’, quella costituita delle linee di alleanza e intervento dei governi occidentali nella regione di guerra.
Così l’elementare distinzione tra ‘credo islamico’ e ‘terrorismo islamista’ viene quasi criminalizzata. Eppure l’islamismo radicale e il suo sviluppo in reti transnazionali del terrore ha una precisa origine socio-politica – espressione di dissidenza violenta all’interno di società arabe e musulmane in opposizione a governi repressivi.
A ben guardare, repressione di stato e islamismo radicale rappresentano due facce della stessa medaglia, lungo una traiettoria che dagli anni 50–60 fino ad oggi ha permesso a quei regimi di disintegrare il carattere pluralistico delle società (ben più articolato negli anni 40 e 50) attraverso il monopolio di partiti nazionalisti e la soppressione di tutte le forme di dissenso: la sinistra, i liberali, l’Islam politico. E’ in questo solco che l’islamismo radicale si afferma e poi prolifera in organizzazioni violente fino alla creazione di al-Qaeda negli anni 90: l’obiettivo rimane la creazione di un contropotere che vendichi le società mediorientali colpendone i brutali governanti.
Eppure, contrariamente al comune sentire, i network jihadisti faticano a mobilitare una forte base sociale, marchio – anzi – della loro debolezza. Persino l’ossessione anti-occidentale che oggi pervade il verbo jihadista nasce e si sviluppa come conseguenza dell’appoggio dell’Occidente ai regimi repressivi. E’ infatti solo con l’11 settembre 2001 che si rompe una tradizione di terrorismo introspettivo, essenzialmente volto a modificare le società musulmane piuttosto che attaccare direttamente l’Occidente.
Ma, divenuta ‘globale’, la cosiddetta ‘minaccia islamista’ fornisce un ulteriore pretesto ai tradizionali regimi autoritari per attrarre aiuti finanziari e militari da parte degli alleati-patroni occidentali, già compratori di risorse naturali ed esportatori di armamenti, in nome di una più efficace collaborazione nella ‘guerra al terrore’: di fatto una più disinvolta repressione del dissenso politico, di cui l’islamismo radicale rappresenta solo una parte. Ne deriva un paradosso che alimenta tanto il potere quanto il contropotere: più efficiente e brutale si fa la macchina della repressione, più nelle carceri avvampa il fuoco della ‘vendetta sacra’, più cresce il numero dei convertiti.
Questo circolo vizioso non si spezza neanche con le rivolte arabe del 2011: dopo una breve finestra di esitazione nel sostegno incondizionato ai regimi autoritari, la logica di potenza si ricolloca nel solco della non-interferenza. Dai reami del Golfo fino all’Egitto di al-Sisi, è tutto un fiorire di relazioni commerciali e partite strategiche, mentre gli attivisti spariscono, i ‘nemici dello stato’ mandati a morte, i dissidenti esibiti impiccati agli elicotteri.
C’è poi una più recente congiuntura che marca l’ultima evoluzione del jihadismo, accompagnandola fino alla nascita del sedicente Stato Islamico (SI): la guerra in Iraq, la repressione nei campi di detenzione statunitense, la distruzione del tessuto sociale iracheno su cui gli attuali vertici dello SI, sopravvissuti alla surge statunitense, riescono nel loro progetto di potere: riconquistare il favore dei notabili sunniti che avevano loro voltato le spalle, ma che, opportunamente pasciuti, vengono messi a fronteggiare un potere centrale percepito come sempre più ostile. Avviene così la transizione da un network impalpabile ad un esercizio di sovranità su un territorio.
Oggi sono trentamila i combattenti accorsi a prestare lealtà ad al-Baghdadi: un numero impressionante in termini assoluti, ma esiguo in termini relativi, se si vuole misurare l’effettivo potere militare del Califfato come ‘minaccia globale’. Se poi si indaga sul suo potere di attrazione politica, occorre ricordare la lunga pletora di episodi di micro-resistenza al potere islamista nella zona nord e centro-orientale della Siria (non quella delle milizie armate dai governi occidentali, né delle milizie sciite finanziate dall’Iran), passata del tutto inosservata alla stampa occidentale. Senza dimenticare che il regime siriano, nelle due amnistie proclamate da Bashar al-Asad, ha aperto le celle di centinaia di jihadisti, immediatamente accorsi a rimpolpare i ranghi dello SI.
Mentre nelle prigioni di Asad continuano ad essere torturati gli intellettuali e i dissidenti laici, l’obiettivo malcelato del regime siriano in lotta per la sua stessa sopravvivenza, è quello di (ri)produrre una vecchia dicotomia concettuale indirizzata all’Occidente che guarda al mondo arabo dopo la sua effimera primavera: la convinzione spuria per cui il Medio Oriente sia in grado di produrre regimi autoritari garanti dell’ordine o poteri islamisti e retrogradi. Nella speranza, ovviamente, che le cancellerie occidentali ritornino a guardare a Damasco come guardano oggi al Cairo del generale al-Sisi: un luogo di potere utile a garantire la loro sicurezza.
Le società europee ferite dalla strage di Parigi e impossibilitate, nello stato d’emergenza, ad articolare risposte politiche collettive, si chiudono in casa a guardare grottesche trasmissioni in cui ci si domanda ossessivamente se esista un Islam moderato e cosa si celi nelle menti dei musulmani europei. Resta, cioè, rimossa la reale questione: quel nesso intimo tra regimi repressivi e proliferazione del terrorismo stesso. Fuori dai riflettori giacciono le molte analisi che tracciano il filo tra la deriva carceraria e l’esplosione del fenomeno SI.
Fuori da ogni cono di luce mediatico muoiono le attese tradite di un’intera generazione di attivisti laici. Eppure nel Cairo del generalissimo al-Sisi saltare in aria per un attacco kamikaze preoccupa forse meno che essere prelevati a forza di notte da incappucciati per essere fagocitati da una cella. Se il legame fra autoritarismo e terrorismo islamista fosse davvero esplorato, dovremmo forse ammettere quanto inutile sia affrontare l’uno senza l’altro: una mossa evidentemente troppo costosa in termini economici e strategici.
Di certo più costosa che andare a bombardare il Califfato e le popolazioni da esso assoggettate – le stesse che hanno cercato di resistere a Bashar al-Asad, allo Stato Islamico, alle nostre bombe e ai nostri fili spinati.