giovedì 26 novembre 2015

il manifesto 26.11.15
Isis, malattia dell’Occidente
Saint Denis, il blitz della polizia francese nel quartiere a nord di Parigi il 18 novembre
di Andrea Bajani


Daesh, l’Is, è la malattia autoimmune dell’Occidente. È la reazione imprevedibile ma fisiologica dentro il copro di un Occidente cosiddetto civilizzato.
Dal corpo umano, d’altra parte, si impara quasi tutto, ad avere voglia di studiarne il funzionamento. Perché il corpo altro non è che il dispositivo che sta dietro ogni azione dell’uomo.
Prima delle sue parole, prima di qualsiasi apparato ideologico con cui l’umanità intera cerca di impacchettare il mondo.
Se la retorica del nemico, dell’altro da noi, è l’ordinaria procedura retorica d’emergenza, è dentro il corpo dell’Occidente capitalistico che varrebbe la pena dare un’occhiata. A interrogarlo, risulterebbe evidente che è il nostro sistema immunitario — cioè il sistema con cui pervicacemente ci difendiamo — a produrre la propria, apparentemente incontrollabile, minaccia.
L’Occidente ha costruito giorno dopo giorno un organismo che si reggeva su pochi fondamentali elementi: il profitto a tutti i costi, la superiorità arrogantemente identitaria della ragione, la tecnologia come via privilegiata e remunerativa verso la cosiddetta libertà, e il trionfo di una sorta di prepotente evoluzionismo democratico, ovvero l’idea che quello che non è come noi è inferiore a noi.
Tutto ciò si è concretizzato in una pratica quotidiana fatta di sfruttamento del pianeta, morte di migliaia di persone innocenti in quasi ogni zona non allineata del mondo, tutte vittime collaterali di procedure mirate al profitto: la corsa agli armamenti, ai giacimenti petroliferi, alle materie prime, imprescindibili nella transazioni che nutrono il corpo del mondo in cui viviamo.
Nel quotidiano, abbiamo avuto la sbornia tecnologica, l’idea lisergica che libertà è dimenticare tutto quello che succede fuori, è chiudersi a chiave in un narcisistico suicidio collettivo, è l’abolizione di qualsiasi utopia.
L’utopia. E proprio dell’aver rinunciato all’utopia che paghiamo lo scotto. Abbiamo pensato di poterne fare a meno, abbiamo pensato di esserne il coronamento, la realizzazione, e l’abbiamo messa in cantina. Ci siamo dimenticati che senza un pensiero utopico, senza un progetto collettivo – politico o religioso – che canalizzi e dia senso all’agire dei singoli, ciascuno resta solo e il mondo si ammala.
Si ammala per una ragione tanto semplice quanto banale.
Perché si ammala il tempo: il futuro scompare e il passato diventa inservibilie, buono per le ricorrenze. L’Occidente capitalista ha sostituito l’utopia, che è un — per quanto chimerico — punto d’arrivo, con la ricerca del profitto, che è solo un processo. Dell’utopia si è tenuto la retorica, proponendo la Felicità come ricompensa di ogni esborso in denaro, di ogni merce acquistata.
Perché funzionasse, quella Felicità doveva però avvizzirsi poco dopo, la carrozza diventare zucca, la miseria riaffacciarsi a chiederne un’altra più bella perché quella di prima aveva, con ogni evidenza, un difetto.
Per tutte queste ragioni, l’Occidente non era preparato all’idea che la tecnologia, invece di narcotizzare le giornate di milioni di persone, potesse trasformarsi in un’arma proprio contro chi l’aveva inventata, dando il via a orrende carneficine, uccidendo persone innocenti dentro i suoi stessi confini.
Per queste stesse ragioni, l’Occidente non era pronto a fare i conti con l’idea che si possa accettare di morire per un obiettivo che, per quanto spaventoso, non è un obiettivo individuale.
È a tutto ciò che assistiamo, immobilizzati, dopo avere buttato nel cestino le utopie. Le abbiamo abbandonate a favore di una blanda manutenzione della solitudine e della tristezza quotidiana, le uniche che assicurano un consumo regolare.
Ed è invece un’altra utopia — seppure terribile — quella che oggi ci mette in ginocchia. E dopo spara.