giovedì 26 novembre 2015

il manifesto 26.11.15
Le derive della paura tra guerre e povertà
Democrazia. Guerre, migrazioni, terrorismo. O restiamo prigionieri di una vecchia razionalità o si cambia paradigma contro il disastro contemporaneo
di Ignazio Masulli


Oltre alla crisi economica esplosa nel 2008, i paesi dell’area euro-atlantica attraversano una crisi politica che appare anch’essa priva di prospettive, a meno di un drastico cambiamento di rotta. Nel corso di un anno, ci siamo trovati di fronte a due fenomeni che hanno disvelato tutta l’impotenza di modelli di pensiero e azione politica non più praticabili.
Il primo fenomeno riguarda il crescendo dei flussi migratori verso quest’area negli ultimi anni. Si tratta di persone che bussano alle nostre porte cercando scampo da guerre e conflitti civili che proprio gli Stati uniti e i loro maggiori alleati europei hanno intrapreso e fomentato negli ultimi decenni, in una sorta di tardo colonialismo malamente travestito da buone intenzioni. Se si sommano i rifugiati e richiedenti asilo negli Usa, Gran Bretagna, Germania, Francia e Italia, il loro numero era di circa un milione e mezzo alla fine dell’anno scorso, contro un totale di 55 milioni nel mondo. Insieme ad essi e in numero maggiore, sono coloro che continuano ad intraprendere lunghi viaggi della speranza verso gli stessi paesi per sfuggire al sovrapporsi insostenibile di povertà endemiche e nuovi squilibri causati dallo sfruttamento massiccio di lavoro a basso costo e dall’espoliazione di risorse naturali, perpetrati dalle multinazionali dei paesi più ricchi.
Ma, nonostante queste precise responsabilità, l’atteggiamento prevalente negli Usa e, ancor più, in Europa è stato quello di “fortezze assediate”.
Sentimenti di timore o apertamente xenofobi presenti in larghe fasce delle popolazioni autoctone non sono stati scoraggiati, ma anzi assecondati e strumentalizzati politicamente. E ciò non solo da partiti di estrema destra, ma anche da sedicenti moderati. E ciò ha trovato riscontro in una disponibilità all’accoglienza da parte dei governi, in Europa e negli Usa, nulla o davvero risibile in confronto alle decine di milioni di persone che hanno trovato rifugio nei paesi vicini, ben più poveri delle mete maggiormente agognate.
A questo si è aggiunto un secondo fenomeno che ha fatto da cartina di tornasole dell’umanità e della doppiezza politica di Stati che si considerano potenti. Il sanguinoso e folle attacco terroristico a Parigi sembra aver dato la stura a nuovi venti di guerra. Gran parte della popolazione in Francia, in altri paesi europei e negli States è come abbandonata alla deriva di sentimenti di paura, mentre non mancano manifestazioni di avversione per tutto ciò che sembra collegabile al “fanatismo islamico”.
Per parte loro, i governanti non sembrano preoccuparsi tanto di tali pericolose reazioni, quanto piuttosto della strumentalizzazione elettorale che ne fanno le opposizioni di destra.
Anche in questo caso alcuni Stati membri dell’Unione europea o della Nato sembrano voler gonfiare le vele verso nuove crociate, incuranti della pretestuosità e dei risultati fallimentari delle due guerre in Iraq, di quella in Afghanistan, del sostegno dato al rovesciamento di regimi autoritari in Libia, Egitto e Siria, nonché delle strumentalizzazioni di contrapposizioni etniche e conflitti interni in altri paesi, specie nell’Africa centrale e orientale (Mali, Nigeria, Repubblica Centrafricana, Sudan, Eritrea, Somalia).
Di fronte a queste prove d’ inadeguatezza e avventurismo, a prese di posizione che mal celano responsabilità e doppiezze, non possiamo non chiederci perché a 25 anni dalla fine dell’equilibrio bipolare, pur minaccioso e soffocante, le potenze del vecchio blocco atlantico, insieme ai maggiori paesi asiatici non siano ancora riusciti a stabilire un nuovo ordine internazionale. Un ordine dotato di maggiore equilibrio e stabilità e, soprattutto, tale da poter reggere alle sfide del presente e del prossimo futuro.
La risposta è da ricercare nell’amara constatazione che, nel corso della nostra storia, l’organizzazione stessa del potere si è conformata all’obiettivo primario di far fronte manu militari a minacce, più o meno probabili, che potessero venire dall’esterno
Non a caso, il paesaggio del nostro passato è costellato da fortezze e armamenti, fino agli ultimi, capaci di distruzione totale. Né meno minacciose e pericolose sono state le recinzioni immateriali tracciate dalla contrapposizione di etnie, nazioni, razze.
Tale constatazione ci deve rendere consapevoli del fatto che ci troviamo, oggi, di fronte ad un punto di biforcazione.
O restiamo prigionieri di una vecchia razionalità politica basata sui rapporti di forza, l’ordine gerarchico, la competizione ineludibile, l’individuazione dell’avversario da abbattere. Così andando verso il disordine entropico. O compiamo il salto necessario per affrontare, in termini nuovi, i problemi strettamente interconnessi e di dimensioni globali che attraversano il mondo contemporaneo.
Ma per compierlo è necessario fare emergere ed esprimere un’altra pulsione antropologica altrettanto forte di quella prevalsa nel passato e solo sacrificata ad essa. E’ una pulsione che conosciamo bene, sia come individui che come comunità, e che tante volte siamo stati capaci di esprimere, anche nella vita sociale e politica. E’ la pulsione che ci spinge alla comprensione e alla ricerca di rapporti di solidarietà e di armonia con gli altri. Una pulsione che può e deve ispirare una nuova razionalità politica basata sul rispetto anche di chi si trova in posizione diversa o distante da noi, che preferisca la cooperazione alla competizione, che ripudi, una volta e per sempre, la violenza e la guerra. E non si continui a dire che queste sono mere aspirazioni lontane dalla realtà, magari più adatte a leader spirituali, perché “la politica è un’altra cosa”.
Si tratta, invece, di constatare che di fronte allo svuotamento della politica, quasi completamente schiacciata dall’affermazione diretta di interessi economici ed obiettivi di potere unilaterali e strumentali, è urgente ritrovare le coordinate di senso e la capacità di scelta di un’azione politica in grado d’interpretare e perseguire il bene comune.