venerdì 20 novembre 2015

il manifesto 20.11.15
L’autunno del generalissimo
Quaranta anni fa la morte del dittatore Francisco Franco. Solo quest’anno Madrid e Barcellona vogliono applicare la «legge sulla memoria storica»
di Alfonso Botti


Fu quando il capo del governo, Carlos Arias Navarro, con voce e volto spettrali ne diede l’annuncio davanti alle telecamere, il 20 novembre del 1975, che gli spagnoli seppero. Intubato e da giorni agonizzante, il dittatore che aveva retto le sorti della Spagna per trentasei anni, aveva esalato l’ultimo respiro.
A riprova che la faglia del 1936 non era stata ricomposta, una parte degli spagnoli pianse, un’altra festeggiò. La maggioranza rimase in attesa degli eventi, convinta tuttavia della necessità di voltar pagina. L’accanimento terapeutico aveva trascinato in vita Franco fino al 20 novembre: lo stesso giorno in cui, nel 1936, era stato fucilato il fondatore della Falange, José Antonio Primo de Rivera. Accanto al «fondatore», con cui mai era stato in buoni rapporti e del quale poi male aveva sopportato la concorrenza sul piano simbolico, Franco fu poi sepolto nella tetra basilica del Valle de los Caídos. Il mausoleo che circa vent’anni prima aveva fatto costruire anche con il lavoro forzato dei prigionieri di guerra dell’esercito repubblicano.
La morte di Franco non produsse una rottura immediata dell’ordinamento franchista, che gli sopravvisse per quasi un anno. Fino a quando il re, scelto dal dittatore per succedergli, consapevole che altrimenti la monarchia non avrebbe avuto futuro, nell’estate del 1976 sfiduciò Arias Navarro, incaricando Adolfo Suárez di formare un nuovo governo, che poi sostenne nel non facile cammino verso la democrazia.
Nell’Europa del secondo dopoguerra nessun regime si era accanito con pari centralismo asfaltatore sulle differenze culturali e linguistiche, imponendo quella nazionalizzazione coercitiva che avrebbe lasciato ferite profonde di cui ancora si avvertono le conseguenze in Catalogna e nei Paesi baschi. Nessuna dittatura personale, fatta eccezione per quella portoghese di Salazar, era stata così longeva e nessun paese, sempre con l’eccezione del Portogallo, aveva superato indenne la cesura del 1945.
Dal Golpe alla sollevazione
A differenza del Portogallo, però, la Spagna aveva conosciuto durante la Seconda Repubblica (1931–36), l’irruzione delle masse nella vita pubblica e avviato con i partiti operai, sull’onda di un entusiasmo inversamente proporzionale alla lungimiranza politica, un vasto e radicale programma di riforme. Forse troppo rivoluzionarie e concomitanti per lasciare disarmate le destre, che nell’autunno del ’33 si erano prese la rivincita approdando al governo. Divise al proprio interno e travolte dagli scandali le destre erano poi uscite battute dalle urne nel febbraio del 1936, quando un’alleanza di Fronte popolare, che faceva così il suo esordio sulla scena europea (anticipando quando sarebbe avvenuto poco dopo in Francia), vinceva fragorosamente le elezioni. I mesi successivi erano stati un tempo di tensioni e conflitti sociali, che un governo debole, affidato inopinatamente alla minuscola Izquierda Republicana, non aveva saputo incanalare a sostegno delle riforme. Anche perché, non riponendo fiducia nella «democrazia borghese», era la rivoluzione che comunisti, trozkisti, anarchici e una parte rilevante dei socialisti (ciascuno a suo modo) predicavano, preparandola in pochi, aspettandola i più. In questo clima teso, si svilupparono le trame dei militari che sarebbero approdate alla sollevazione del 17–18 luglio 1936. Un golpe che realizzato con la massima violenza avrebbe dovuto condurre a una dittatura militare e che, invece, fallendo, fu causa del sanguinoso confitto civile che ne seguì.
Fu la guerra civile a portare alla ribalta il più giovane dei generali coinvolti nella cospirazione. Franco non ne era stato l’ideatore, né il principale promotore. La sua carriera era stata rapida, ma non folgorante. Dell’eroe guerriero che la propaganda avrebbe costruito in seguito, la sua biografia non presentava traccia. Ma quando si trattò di combattere, la Legión di cui era a capo, si rivelò decisiva, grazie al ponte aereo, reso possibile dai velivoli inviati da Mussolini, che la trasbordò in Andalusia. Nel frattempo il capo designato della rivolta, il generale Sanjurjo, era morto in un incidente aereo, il leader della destra parlamentare, Calvo Sotelo, eliminato il 13 luglio, e Primo de Rivera in carcere ad Alicante. Così Franco alla fine del settembre 1936 divenne il capo degli eserciti, del governo e del nuovo Stato in costruzione. Solo alcuni mesi dopo, nell’aprile del ’37, si mise anche al vertice del partito unico (Fet y de las Jons) voluto dal cognato, Serrano Súñer, il più fascista tra le persone a lui vicine.
I massicci, e decisivi per le sorti della guerra civile, aiuti inviati da Mussolini e Hitler sospinsero la Spagna verso la deriva fascista. E questo sarebbe stato l’approdo se le sorti della Seconda guerra mondiale, segnate nel novembre del 1942 dallo sbarco americano sulle coste dell’Africa, non avessero convinto Franco ad avviare una manovra di sganciamento dall’Asse e una parallela operazione cosmetica per accreditare agli occhi del mondo una Spagna «altra» rispetto al fascismo e al nazismo. La manovra prese forma con l’avvicinamento agli Alleati e l’avvio di una doppia diplomazia; l’operazione cosmetica con l’allontanamento di Serrano Súñer dalla politica. Nel 1945 la facciata del regime finì di essere ridipinta. Franco si fece vanto di non essere entrato in guerra a fianco dell’Asse (quando, in realtà, le sue richieste per farlo erano state ritenute troppo esose da Hitler); di aver attuato una politica umanitaria di fronte alle persecuzioni antiebraiche (mentre fino al ‘42–43 aveva concesso con il contagocce permessi di transito agli ebrei che volevano recarsi in Portogallo per imbarcarsi per gli Usa); di aver inviato un contingente di volontari a combattere in Russia non per contiguità con il nazismo, ma per combattere il comunismo. Sempre nel 1945, poi, fece varare una Carta dei diritti degli spagnoli, che su quella carta rimasero, ma che diede modo a Franco di presentare la Spagna come una «democrazia organica». Spietato sul piano interno verso i prigionieri di guerra e gli oppositori, come lo era stato durante la guerra civile con i combattenti repubblicani, non gli mancò l’intelligenza sul piano politico per garantire la sopravvivenza della dittatura nel nuovo quadro segnato dalla guerra fredda. In questo modo, pur nell’isolamento e con un paese allo stremo perché costretto all’autarchia, riuscì a superare l’unico momento in cui il regime di cui era divenuto ormai l’eroe eponimo corse il rischio di essere travolto. Lo avevano inutilmente sperato le centinaia di migliaia di esuli repubblicani, convinti che la liberazione dell’Europa dal giogo nazifascista non avrebbe risparmiato la Spagna franchista.
In nome dell’Occidente
Non andò così e Franco morì da capo dello Stato trent’anni dopo. Sulla durata del suo regime gli storici si sono interrogati e continuano a farlo. La divisione del mondo in due blocchi e la capacità della Spagna di presentarsi come baluardo e sentinella dell’Occidente contro il comunismo, fu senz’altro il principale. La brutale repressione sul piano interno che impedì all’opposizione di riorganizzarsi e di sollevare la testa fino al tardo franchismo, fu la seconda. L’appoggio della Chiesa cattolica, almeno fino al Concilio Vaticano II, al regime clericale di Franco, che alcuni ambienti della Curia romana indicarono come modello di Stato cattolico, fu il terzo. Ad essi si aggiunge la camaleontica capacità di Franco di adattarsi al mutare del contesto internazionale e di dosare la presenza nei suoi governi degli esponenti delle famiglie e culture politiche che lo sostenevano.
Emblematici, da questo punto di vista, la progressiva emarginazione della componente falangista senza mai rompere con essa; l’utilizzo di figure provenienti dal cattolicesimo politico conservatore prima e tecnocratico (affiliate all’Opus Dei) poi; la capacità di tenere sulla corda i monarchici dei due rami aspiranti al trono, designando solo nel 1969 il successore per un Regno che sulla carta esisteva dal 1947. Lo aiutò a durare una massiccia campagna di propaganda che nel corso degli anni costruì sulla sua figura vari miti, come ha mostrato Antonio Cazorla nel recente Franco, autobiografía del mito (Madrid, Alianza). Anzitutto il mito dell’eroe militare (per la sua condotta nella guerra in Marocco), poi quello del salvatore della patria (per la vittoria nella guerra civile), poi ancora quello di uomo di pace (per non essere entrato in guerra durante il secondo conflitto mondiale), indi quello del buon governante (per aver guidato il paese nella difficile ricostruzione e assicurato un lungo periodo di pace), infine quello del modernizzatore (per il boom economico degli anni Sessanta). Ai quali è da aggiungere il mito postumo di un Franco artefice della democratizzazione del paese (per aver scelto Juan Carlos come successore).
In realtà, nonostante l’ingessatura obsoleta imposta dal regime, la Spagna aveva cominciato a cambiare nel corso degli anni Sessanta e la società civile a crescere. Perso il contatto con la realtà del paese, Franco non previde le conseguenze che avrebbe avuto il mutato orientamento della politica economica della fine degli anni Cinquanta, che aveva assecondato, ma non proposto; non capì cosa fosse successo nella Chiesa, che dopo averlo appoggiato per tanti anni gli si rivoltava contro. E non capendo nulla del mondo che era cambiato reagì, persino in limine vitae, nell’unico modo che conosceva: respingendo le domande di grazia (avanzate anche da Paolo VI) di fronte alle cinque esecuzioni del 27 settembre e convocando poi per il 1° ottobre, di fronte alle proteste internazionali, una manifestazione nella solita Plaza de Oriente per denunciare, ancora una volta, il complotto comunista. Fu il suo ultimo discorso.