Corriere La Lettura 15.11.15
Antropologia
I dannati del gergo: una lingua senza sole
Gli studi di Lombroso sui commessi torinesi
di Alberto Cavaglion
L’interesse per le lingue settoriali, come per i tatuaggi, è una delle cento stranezze di cui si compone l’opera di Cesare Lombroso, la sua camera delle meraviglie. Sarebbe un peccato se, per la controversia giuridica sollevata contro il museo torinese a lui dedicato per la restituzione del cranio del detenuto Villella al suo paese natale in Calabria, corressimo il pericolo di discutere i suoi libri in tribunale.
Il tema dei gerghi e delle lingue degli emarginati è, fra tutti, il meno studiato. L’antropologo se ne occupò a lungo. Se scorriamo le annate della sua maggiore rivista, l’«Archivio di psichiatria, scienze penali ed antropologia criminale», scopriamo che l’interesse per la comunicazione gergale non riguardava soltanto il mondo dei malavitosi. Non è soltanto «l’uomo delinquente» a servirsi di un furbesco codice. Un capitolo molto curioso di questa ricerca avviata dalla scuola lombrosiana riguarda il linguaggio in uso negli esercizi commerciali, in particolare nei negozi di tessuti torinesi di fine Ottocento, quasi tutti proprietà di ebrei: per intenderci, Il fondaco del nonno descritto nel famoso racconto omonimo di Primo Levi.
Perché il lessico deformato di quelle maestranze fosse da collegarsi alle onomatopee dei delinquenti non è semplice da spiegare. Lombroso, si sa, amava le acrobazie, ma c’è sempre nei suoi paradossi un fondamento di verità malinconica. Per chi lo ha coltivato in famiglia, ed è il caso sia degli antenati di Lombroso, sia di quelli di Levi, il «mercatare» è apparso sempre (e talvolta ancora appare, in tempi di crisi) una prigione. Dorata, ma pur sempre una prigione quella dei fondachi dei nonni, dove chi vi lavorava riteneva opportuno proteggersi dagli estranei ricorrendo a una intimità colloquiale talvolta aspra, certo non paragonabile ai tweet di chi lavora oggi nei centri commerciali delle grandi città.
Tra padrone del negozio e commessi scorreva un lessico gustoso, concepito allo scopo di non essere compresi dal cliente. Torino era famosa nell’Ottocento per le sue sartorie e l’eleganza delle sue vetrine. Sartine, soprattutto commesse, riempiono le pagine di De Amicis e di molta buona (e cattiva) letteratura d’appendice. Pochi sanno che quel microcosmo si serviva di «un gergo di trastullo». Qualche esempio. Un profumiere portava per insegna Latil Frères . La traduzione, «Fratelli Latil», faceva sì che latil venisse in gergo a significare «fratello». Il proprietario di un altro negozio si chiamava Celestino Long. Ed ecco che il nome assorbe il cognome: nasce così l’aggettivo celestin =lungo e il relativo verbo celestiné , tirare in lungo.
Si occupò della questione un eclettico collaboratore di Lombroso, Arturo Aly Belfàdel, un medico nato in Sicilia nel 1872, trasferitosi per completare gli studi a Torino. Come si vede, nella scelta dei collaboratori, Lombroso non era vittima di nessun pregiudizio antimeridionale. D’altra parte non è forse vero che proprio al Belfàdel dobbiamo la stesura di un’ammirevole grammatica piemontese? Nel 1898 sull’«Archivio di psichiatria, scienze penali ed antropologia criminale» esce un breve articolo, con tanto di vocabolarietto, Sopra un gergo di commessi di negozio torinesi .
Il gergo — lo sanno i lettori di Levi — è l’espressione di un mondo alla rovescia e pertanto ha le sue regole generali capovolte. Per dire bello si diceva cënü . «Brutto» diventa cënü löt (bello non). Nei gerghi, insegna Lombroso, si esprimono solo le qualità negative. Volendo esprimere la positività si nega la qualità negativa. Lasslu löt cütì alla lettera significa ciò che dice il padrone rivolto al commesso, alludendo al cliente: «Lascialo non acchiappare», per dire esattamente il contrario («Non lo lasciar fuggire»). Belfàdel scrive di aver raccolto vocaboli dal commesso di un negozio che non nomina: «Io non conosco questo padrone, ma, se debbo credere alla fama, è un onesto negoziante, un po’ burbero e null’altro». Dalle cronache di famiglia redatte da Paola, Giorgio e Maria Carla Colombo, in un libretto uscito qualche anno fa ( Trait-d’union , 2011), apprendiamo che l’informatore potrebbe essere Edoardo Colombo, titolare della ditta Fratelli Torta con sede a Torino in via Roma 23 a due passi dal fondaco del nonno di Levi. In gioventù aveva girovagato in bicicletta per il Piemonte cercando di piazzare i suoi scampoli; poi aveva fatto fortuna, ma doveva avere un caratteraccio, a detta dell’esigente collaboratore di Lombroso: «Io volevo raccogliere molte più parole e perciò mi rivolsi ad un commesso, il quale poi si rifiutò dicendo di avere avuta proibizione dal padrone di comunicarmele».
Di questo Gnôr Côlômbô possediamo, debitamente alterato, il profilo che Primo Levi ci offre nel racconto Argon ( ne Il sistema periodico ): «Nel Piemonte del secolo scorso», scrive, «il commercio delle stoffe era sovente in mani ebraiche, e ne è nato un sotto-gergo specialistico che trasmesso dai commessi divenuti a loro volta padroni, e non necessariamente ebrei, si è diffuso a molte botteghe del ramo e vive tuttora, parlato da gente che rimane stupita quando viene casualmente a sapere che usa parole ebraiche».
In questa lingua umiliata, spiegano Lombroso e Levi, mancano, «in quanto inutili», vocaboli come «giorno», «sole», assenti pure nella lingua del Lager. Il mercatare come dannazione? Il fondaco dei nonni come una cella buia? Il fantasma di Lombroso turba i sonni degli studiosi di Primo Levi, ma non solo.