giovedì 5 novembre 2015

Corriere 5.11.15
Statisti, industriali, aristocratici. Ostaggi di lusso nelle mani di Hitler
di Aldo Cazzullo


Il mattino del 28 aprile 1945, verso le nove, gli abitanti di Villabassa, paesino della valle di Bries, a trenta chilometri da Cortina d’Ampezzo, rimasero stupefatti di fronte a un piccolo gruppo di persone, alcune delle quali avevano tratti familiari. Erano poco più di cento, ma avevano una scorta imponente: un’ottantina di SS con i mitra spianati. Erano personalità dell’Europa d’anteguerra: generali, capi di governo, ministri, figli di regnanti e di dittatori. Ma i soldati tedeschi non erano lì per proteggerli, bensì per custodirli. Si trattava infatti di prigionieri, sia pure ancora per poco.
Comincia così, con un’immagine evocativa di grande potenza letteraria, il nuovo libro di Mirella Serri, Gli invisibili. La storia segreta dei prigionieri illustri di Hitler in Italia , appena pubblicato da Longanesi. L’espressione «prigionieri illustri», in tedesco Sonderhaeftlinge , non è casuale; è la denominazione che il gergo del Terzo Reich coniò per definire i protagonisti del libro.
Quel mattino di primavera apparvero nel villaggio del Sud Tirolo uomini e donne che sembravano usciti da un nascondiglio della storia, come nella poesia di Montale. Alcuni erano relitti d’uomo e avevano l’aspetto smagrito e smunto tipico dei deportati; altri invece erano riusciti a conservare l’ allure e pure l’eleganza di un tempo, e sfoggiavano vestiti e panciotti «impataccati ma in buono stato». Altri ancora avevano «l’aspetto da clochard ». Scrive Mirella Serri che il primo a essere individuato fu l’ex cancelliere austriaco Kurt Alois von Schuschnigg, strenuo difensore dell’indipendenza della patria dalle mire di Hitler e inghiottito dall’Anschluss del 1938. I valligiani lo interrogarono timorosi, e accanto a lui riconobbero anche l’ex borgomastro di Vienna, Richard Schmitz, «ingoffato in un’ampia casacca». Qualcuno che leggeva i giornali riconobbe Léon Blum, il primo ministro che aveva governato la Francia del Fronte popolare, in compagnia della moglie. Il pastore e teologo Martin Niemöller fu salutato da un applauso: fin dal 1934 la sua voce era stata tra le più critiche e coraggiose nei confronti della dittatura nazista. C’erano poi Alexandros Papagos, il ministro greco della Guerra che con i suoi euzones aveva respinto gli invasori italiani in Albania prima dell’arrivo dei carri armati tedeschi; il ricchissimo industriale Fritz Thyssen; l’ex presidente della Reichsbank e ministro dell’Economia Hjalmar Schacht, che aveva rotto con Hitler nel 1937; il principe Saverio di Borbone, fratello dell’imperatrice Zita, moglie dell’imperatore d’Austria Carlo I; il nipote di Vjaceslav Molotov, ministro degli Esteri sovietico; il figlio di Miklós Horthy, già reggente dell’Ungheria.
Poi c’erano gli italiani. Mario Badoglio, il figlio del maresciallo. Sante Garibaldi, il nipote dell’eroe dei due mondi. L’ex capo della polizia di Salò Tullio Tamburini. Il capo partigiano Enrico Ferrero, tenente colonnello che aveva combattuto sulle Langhe. E c’erano prigionieri tedeschi molto legati all’Italia. Come Fey von Hassel, «moglie dell’ufficiale antifascista Detalmo Pirzio Biroli e figlia di Ulrich, appeso a un gancio da macellaio l’8 settembre 1944, poco dopo aver partecipato alla congiura contro Hitler». E come il principe Philipp von Hessen-Kassel und Hessen-Rumperheim, marito della principessa Mafalda di Savoia, figlia del re d’Italia.
Mafalda però non c’era. «Ricoverata nella baracca delle prostitute a Buchenwald, morta dissanguata a seguito di un lungo intervento chirurgico». La salma della principessa, posta in una bara di legno il 29 agosto 1944, fu calata nella fossa 262 del cimitero di Weimar ed ebbe come epigrafe «Eine unbekannte Frau», una donna sconosciuta. L’autrice riporta la testimonianza di un’altra Savoia, Maria Gabriella: «Zia Mafalda ha pagato per tutti. È stata un capro espiatorio. La sua morte tragica, in un campo di concentramento nazista bombardato dagli alleati angloamericani, dopo un anno di prigionia, è una grande lezione di coraggio e di umiltà. È finita come milioni di altri poveri innocenti, umiliata e uccisa. A nulla le è servito essere la figlia di un re, Vittorio Emanuele III».
La storia degli Invisibili rappresenta un nuovo capitolo del lungo percorso che Mirella Serri ha compiuto nel Novecento italiano, indagando «i redenti», gli intellettuali passati dal Duce a Togliatti, «i sorvegliati speciali», lo spionaggio di regime a danno di scrittori e giornalisti, il «breve viaggio» di Giaime Pintor nella Germania nazista, e «un amore partigiano»: il legame tra Gianna e Neri, giustiziati dai loro compagni di lotta, sullo sfondo delle ultime ore di Claretta Petacci.
Ora la vicenda dei «prigionieri illustri» conferma da una parte la spietatezza di Hitler verso coloro che considerava traditori, dall’altra la spregiudicatezza di un regime che diramava direttive del tipo: «Non uccideteli, possono tornarci utili».
Esemplare è la storia, decisamente poco nota, di un prigioniero georgiano che la Serri ricostruisce in un capitolo avvincente. «“Il mio compagno di cella... si fa chiamare Jakov”, aveva cominciato a far la spia il detenuto che alloggiava con lui. “È un tipo strano, non parla mai... Ogni tanto piange, ha attacchi di rabbia, picchia con i pugni e sbatte la testa contro le assi della baracca... Però una notte che era in vena di confidenze si è aperto con me. Mi ha rivelato il suo vero nome che peraltro, dice, gli ha portato solo sfortuna: Jakov Josifovic Džugašvili. Sa di chi si tratta?”. “No”. “È il figlio di Stalin”».