martedì 3 novembre 2015

Corriere 3.11.15
Quando il Pci scomunicò l’estremismo


Le parole di Giorgio Amendola suonano antiche e rivelatrici. Oggi come al tempo in cui furono pronunciate. Era il 1977, anno di piombo e di rivolte in strada, di agguati e manifestazioni violente. Il dirigente del Pci, già settantenne, parlava al Comitato centrale del partito; pochi giorni prima a Bologna, durante uno scontro di piazza, un proiettile esploso dai carabinieri aveva ucciso il militante di Lotta Continua Francesco Lorusso. Amendola lo definì «un nostro nemico», al quale rendeva onore, e ricordò che «anche i giovani repubblichini che venivano a combattere contro di noi erano ragazzi generosi e in buona fede. Li rispettavamo per il loro coraggio, ma dovevamo fucilarli perché erano nemici».
Lorusso non era un terrorista, ma un estremista. E il duro accostamento di Amendola solleva il velo sull’atteggiamento che buona parte della dirigenza comunista (soprattutto della sua generazione) ebbe nei confronti dell’estremismo, prima ancora che della lotta armata: un contrasto spinto fino allo schieramento sui lati opposti della barricata. Non solo in senso figurato. In quella riunione molti altri «anziani» ebbero espressioni meno drammatiche, ma ugualmente decise, e per il segretario dei giovani comunisti Massimo D’Alema non fu semplice sostenere che il partito doveva «misurarsi con un fenomeno nuovo, che andava compreso e denunciato per rendere consapevoli i militanti».
Il resoconto di quel dibattito è uno dei passaggi più significativi dell’accurata ricostruzione contenuta in Difendere la democrazia. Il Pci contro la lotta armata (Carocci editore, pagine 330, e 37) scritto da Alessandro Naccarato, deputato del Pd nato nel 1969, l’anno della strage di piazza Fontana. Un lavoro che ripercorre passo dopo passo il modo in cui i comunisti fronteggiarono il terrorismo italiano, dai primi vagiti fino al declino di metà anni Ottanta. Ne emerge un’idea dell’eversione figlia di un massimalismo che affonda le radici nel Sessantotto e nelle sue declinazioni non veicolate dalla politica del Pci a sostegno delle rivendicazioni studentesche e operaie. In sostanza, ciò che rimase fuori dal partito divenne il brodo di coltura della lotta armata.
Vista inizialmente come provocazione degli apparati impegnati a tenere i comunisti lontani dalla «stanza dei bottoni», e poi come assalto diretto al Pci come colonna della democrazia, al pari degli altri partiti dell’arco costituzionale. Per questo — proprio a partire dal 1977, poi nel sequestro Moro fino al rapimento di Dozier e alla liberazione dell’ostaggio con un blitz della polizia (1982) — la dirigenza comunista, con Ugo Pecchioli in prima fila, scelse di schierarsi apertamente al fianco della magistratura, delle forze dell’ordine e della «repressione», senza «avere paura delle parole».
Non a caso una parte considerevole dell’analisi di Naccarato segue il corso degli eventi a Padova, la città dove le Br commisero il primo duplice omicidio e dove le violenze degli autonomi ebbero maggior peso ed eco; e dove l’inchiesta e il processo «7 aprile» divennero il paradigma del sostegno del Pci all’azione giudiziaria che doveva dimostrare, anche sul piano delle responsabilità penali, l’intreccio tra estremismo e terrorismo. Fino al dibattito in direzione sull’arresto di Toni Negri (eletto deputato nel 1983 con i radicali), nel quale anche i leader che venivano dalla lotta antifascista e di liberazione si trovarono a sostenere posizioni diverse; Pajetta (favorevole) contro Macaluso (contrario); Napolitano contro Zangheri, Chiaromonte contro Reichlin. Con astensione finale al momento del voto in aula, quando l’isolamento politico dei sovversivi sembrava ormai cosa fatta, insieme alla sconfitta militare.