lunedì 30 novembre 2015

Corriere 30.11.15
L’eredità morale di Dossetti
di Marzio Breda


«I nizia la carriera universitaria, lascia per la Resistenza. È capo partigiano, lascia per la politica. È dirigente della Democrazia cristiana, è costituente, è parlamentare, lascia per la scelta religiosa. Fonda una comunità monastica a Bologna, lascia per andare a Gerico». Si ritira in un eremo, ma quando, nel 1994, Berlusconi vince le elezioni, si fa sentire invocando Isaia: sentinella, quanto durerà la notte? «Indossava il saio, aveva la croce sul petto e citava la Bibbia, ma la sua non era l’esortazione di un religioso, era l’invettiva del politico».
È una catena di nette — ma non incoerenti — discontinuità, quella che Giuseppe Sangiorgi riassume nella prefazione al doppio volume La passione e il disincanto (Edizioni Il Settimo Libro, pagine 510, e 36), nel quale si ridà voce a Giuseppe Dossetti, un uomo tra i più carismatici del movimento politico cristiano, un grande rimosso che non può essere però considerato un caso chiuso. Non ancora. E lo si ricava da quanto è sopravvissuto della sua eredità morale, nonostante gli scatti in avanti che hanno segnato la sua parabola.
Dossetti, vicesegretario della Dc, eletto alla carica a furor di congresso, ingaggia subito una battaglia con Alcide De Gasperi: vuole un partito «più cristiano», meno legato alle «necessità» della politica quotidiana. Ma quando De Gasperi sgancia dal governo Pci e Psi, si ribella: questi, con la Dc, sono i partiti radicati nel Paese, pensare di governare estromettendoli è una bestemmia contro la democrazia. L’impegno sociale è ciò che spiega tutto, di lui. Scrive: «Sono le esigenze che impongono di incentrare la nostra politica economica, sociale e internazionale, intorno ad un supremo sforzo per dare lavoro al maggior numero possibile di italiani».
La passione e il disincanto raccoglie anche i preziosi articoli, ormai introvabili, comparsi tra il 1946 e il 1951 sulla rivista della corrente, «Cronache sociali», e firmati dai «professorini» di Dossetti. Gente come Moro, Fanfani, Elia, La Pira, Lazzati, Mortati, cui si aggiungono «esterni» di peso: i socialisti Basso e Vittorelli, gli ex azionisti Garosci ed Ernesto Rossi, il socialdemocratico Tremelloni, il repubblicano Boeri, e i sacerdoti impegnati in quel confronto, Mazzolari e Turoldo. Rivelatrice delle sue scelte, la lettera scoperta da Sangiorgi, che, alla vigilia del ritiro dalla politica, Dossetti scrive a Mariano Rumor: sei tu il mio erede, tu solo ce la puoi fare. E Fanfani, il supposto numero due, Dossetti non lo nomina neppure: l’ex pupillo era entrato nel governo De Gasperi, contro la volontà del suo «capo». D’altra parte, erano destini diversi: Fanfani viaggiava verso la presidenza del Consiglio, Dossetti verso il saio.
E infatti, nello scontro con De Gasperi, sente di aver perso la sua lotta per il cristianesimo sociale e si chiude nell’isolamento. Ma cala davvero un’eclissi su di lui? No, perché per quarant’anni, anche senza Dossetti, la politica dc è dominata dall’influenza del dossettismo: il partito rastrella voti a destra (salvo la testimonianza politicamente irrilevante del Msi) per realizzare un modello che di destra ha poco, forse niente. Non a caso la cassa integrazione, la lotta all’inflazione, il taglio della disoccupazione connesso al boom, la Cassa per il Mezzogiorno, insomma l’edificazione dello Stato sociale sono quanto di più «dossettiano» lo stesso Dossetti avrebbe immaginato. Quando si ritira in convento, Dossetti si sente sconfitto, anche se il dossettismo vince e governa a lungo. Non solo attraverso gli ex professorini, ma attraverso le sue suggestioni e certe sue follie. Scrive Gian Luigi Capurso, curatore del saggio: «La dottrina di Dossetti continua a echeggiare nel mondo cattolico per decenni, suscitando acuti rimpianti, dolorosi rimorsi, e sospiri di sollievo».