Corriere 29.11.15
L’ex ministro tedesco Joschka Fischer
Un’intesa con Damasco è un errore colossale
intervista di Paolo Valentino
BERLINO Quando apre la porta di casa sua, nel bosco di Grunewald, Joschka Fischer è al telefono. Mi fa segno di entrare. Parla animatamente con uno dei suoi ex collaboratori al ministero degli Esteri. Ha appena appreso dalle agenzie che la Francia pensa a una collaborazione militare sul terreno con le truppe di Assad in Siria. E sta controllando la veridicità della notizia. «Sarebbe un errore catastrofico, colossale. Bisogna dirlo», ripete l’ex ministro degli Esteri tedesco più volte, prima di salutare e chiudere la conversazione.
Perché l’idea di usare a terra anche le truppe di Assad la preoccupa tanto?
«Perché sarebbe lo stesso errore fatto dagli americani in Iraq con il governo Maliki, ma molto peggiore: quella scelta ha spinto i sunniti iracheni verso l’Isis. In Siria una collaborazione militare con Bashar Assad spingerebbe tutti i ribelli sunniti nelle braccia del Califfato. E mentre in Iraq erano una minoranza, in Siria i sunniti sono maggioranza. Se abbiamo bisogno di “boots on the ground”, non devono essere quelli dei soldati di Assad».
Come dobbiamo comportarci con Assad allora?
«Le forze del vecchio regime non possono esser tenute fuori da una soluzione politica, ma una collaborazione militare è tutt’altra cosa. Fra l’altro produrrebbe un’ulteriore emorragia di profughi».
Siamo in guerra, come dice François Hollande, oppure no?
«Non è un problema di definizione. La guerra in Siria deve essere conclusa al più presto. I rifugiati, il terrorismo dell’Isis, la catastrofe umanitaria per milioni di persone: non si può più andare avanti così, l’intera regione rischia l’infezione. La stabilità di tutta l’area mediorientale è a rischio».
Quindi, che fare?
«L’Isis va sconfitto con mezzi militari e politici. Il mio consiglio è di collegare strettamente la grande alleanza che va consolidandosi con il processo di Vienna per la soluzione politica. Sarebbe meglio se quest’ultimo fosse portato sotto l’egida dell’Onu. Ma non si deve stabilire un linkage tra Ucraina e Siria, che devono rimanere separate, così come è successo nel caso del negoziato nucleare iraniano. E non si deve collaborare militarmente con Assad. Non possiamo dimenticare che nel contenitore siriano sono stratificati diversi conflitti, quello tra Isis e Occidente, quello tra sciiti e sunniti, quello tra Arabia Saudita e Iran per l’egemonia regionale e infine quello interno al mondo sunnita che porta al nodo decisivo: quale forma di islamismo sunnita prevarrà? Quello wahabita o una forma moderata? Se vincesse il primo sarebbe fatale».
Ma l’idea della coalizione mondiale sostenuta da Hollande è praticabile?
«L’idea è giusta. Ma la Francia non ha le forze politiche e militari per guidarla. Solo gli Stati Uniti possono farlo, ma non lo fanno».
Qual è la sua critica all’atteggiamento degli Stati Uniti? In fondo fin qui si sono fatti carico della maggior parte dei raid aerei.
«Solo gli Usa posseggono i mezzi militari necessari, la capacità di impiegarli per un lungo periodo e l’influenza politica per guidare un’alleanza di questo genere. Nessuna potenza europea e neppure la Russia hanno tutte queste capacità, sebbene Putin pensi il contrario. La riluttanza americana è un grosso errore».
L’argomento dell’Amministrazione americana è quello che non si può montare un intervento su larga scala, se non si hanno prospettive e piani chiari per il dopo.
«Non si tratta di un intervento su larga scala, non dobbiamo ripetere gli errori del passato. Non è stato saggio da parte di Obama indicare una linea rossa e poi non agire una volta che Assad l’ha oltrepassata. Il prezzo pagato in termini di credibilità è stato altissimo. Ora occorre lavorare per un governo di unità nazionale in Siria e allo stesso tempo porre fine alla guerra. Sul piano militare, secondo me, possono bastare le forze speciali, non solo americane ma di un certo numero di Paesi, in collegamento con raid aerei coordinati e intensificati».
Quali sfide pone all’Europa lo Stato Islamico?
«Quando l’Europa non si preoccupa dei conflitti nelle regioni vicine, questi conflitti arrivano in Europa. E si illude chi pensa di poter gestire le emergenze da solo. L’Europa ha di fronte gravissime minacce alla sua sicurezza e sfide strategiche con cui deve misurarsi. Primo, è giunto il momento per l’Europa di rafforzare il proprio deterrente difensivo. Secondo, la diplomazia europea deve essere più attiva, veloce e determinata nel prendersi carico di questi conflitti. In Siria è stata di fatto assente. Questo non deve ripetersi. Infine, l’Europa deve impegnare più risorse dove sono necessarie: trovo assurdo, per fare un esempio che conosco, che la Germania abbia ridotto i fondi all’Unhcr (l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, ndr ). Il 13 novembre ha segnato una cesura. Un membro dell’Unione è stato aggredito e la solidarietà concreta è dovuta. Per prima volta l’intera Unione è sotto minaccia anche militare e deve reagire. La domanda è se lo farà insieme o agirà in ordine sparso».
La Turchia sembra la variante impazzita di questa vicenda. Come comportarsi con Ankara?
«Non possiamo fare a meno della Turchia, partner difficile ma irrinunciabile. L’errore grave lo hanno fatto Merkel e Sarkozy nel 2007, quando sbatterono la porta dell’Unione in faccia a Erdogan. Non è semplice, ma la Turchia è fondamentale per gli interessi europei nel Mediterraneo, nel Medio Oriente, nel Caucaso, nel Caspio, fino all’Asia Centrale».
Teme che il contrasto di Ankara con la Russia vada fuori controllo?
«È nell’interesse vitale di ambedue le parti ridimensionare la vicenda. Dobbiamo ad ogni costo impedire una ulteriore escalation».
In che modo possiamo impegnare positivamente l’Iran oltre la vicenda siriana?
«Dobbiamo ampliare i temi della discussione con Teheran, prendere in conto i suoi interessi senza per questo ferire quelli di altri protagonisti della regione. Mi riferisco all’Arabia Saudita: è per noi prioritario che il rapporto tra Teheran e Riad sia equilibrato. L’Iran ha un ruolo di primo piano nella partita in corso».
Le crisi, si è sempre detto, sono il lievito dell’Europa. È così anche questa volta?
«La crisi dell’euro e quella dei rifugiati hanno distrutto la solidarietà interna. Nel caso del terrorismo è diverso, la solidarietà c’è, viene espressa. Resto del parere che sotto la pressione di una crisi gli europei scelgono sempre di andare avanti. Quello che però mi preoccupa è il ritorno del neo-nazionalismo: Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, la prospettiva del Brexit, il ruolo del Front National in Francia e di forze anti-europee in Italia e perfino in Germania. C’è il pericolo che il neonazionalismo blocchi quantomeno nuovi passi avanti dell’integrazione. Penso anche però che queste forze non abbiano nulla da proporre, tranne il ritorno al passato. Per questo rimango ottimista. L’opinione pubblica non è un dato immutabile, occorre combattere per conquistarla. Forse questa crisi ci insegnerà a contrastare il neo-nazionalismo. L’Europa non è più scontata, ma di nuovo un’idea per cui bisogna lottare».
Ma ha senso oggi parlare di prospettive e grandi progetti europei?
«Non è il momento di lanciare nuovi dibattiti istituzionali, prima dobbiamo affrontare e vincere sfide concrete. Certo, dobbiamo sempre avere in testa la direzione: l’Europa è un lungo viaggio e non dobbiamo mai perdere di vista l’obiettivo finale».