Corriere 26.11.15
C’è differenza tra realtà e verità Il potere sconfinato delle parole
Le riflessioni di Gianrico Carofiglio
di Paolo Foschini
Forse certe volte ci vorrebbe davvero una sberla. Come quella di Nanni Moretti, ricordate?, alla giornalista del film Palombella rossa che diceva «e tutto il resto», «trend negativo», «alle prime armi» e così via: «Ma come parlaaaa? Le parole sono importantiiii!», le urlava lui al rallentatore. E beccati un’altra sberla che te la meriti. Perché «chi parla male pensa male».
Naturalmente non è che ci voleva Ecce Bombo , l’aveva già detto una fila di gente, da Aristotele in giù. Eppure ce lo dimentichiamo sempre. Così, anche senza la violenza dello schiaffo, ma con la stessa risoluta fermezza e una raffica di esempi a sostenerla, Gianrico Carofiglio torna a ricordarci la grande verità per cui «non è possibile pensare con chiarezza — dice citando tra i mille altri il filosofo John Searle — se non si è capaci di parlare e scrivere con chiarezza». Il che è più semplice a dirsi che no, certo. E qui sta l’utilità di questo che è un po’ un saggio teorico e un po’ un manuale d’istruzioni, con dentro non meno rigore che ironia, pubblicato da Laterza e diviso in due parti che corrispondono alle due metà del suo titolo: Con parole precise per inquadrare il tema; e Breviario di scrittura civile per applicare l’analisi all’ambito che più di tutti ne invoca da sempre l’urgenza. Perché il Potere può anche governare i corpi col bastone, ma le teste, da sempre, le comanda con le parole. Dai verbali dei processi per stregoneria al lessico diabolico della burocrazia, dalla sintassi delle leggi agli slogan della piazza. E quindi «occuparsi del linguaggio pubblico non è un lusso da intellettuali — scrive Carofiglio — ma un dovere cruciale dell’etica civile».
Magistrato, scrittore, parlamentare, Carofiglio è il primo a riconoscere che proprio la parola è il denominatore comune dei suoi tre mestieri. Come lo è degli esseri umani, peraltro, visto che tutti viviamo «raccontando». Semplicemente perché «è impossibile non farlo e perché la nostra capacità di affrontare il mondo e la vita è funzione della nostra capacità di raccontarli». Ma per farlo bene ci vogliono quelle che T.S. Eliot chiamava le «parole giuste». Che devono rispondere a sei criteri precisi di «correttezza, realtà, verità, pertinenza, esattezza, precisione», dove è opportuno ricordare che realtà e verità non sono affatto sinonimi, essendo possibilissimo scrivere cose realistiche ma false, come la bugia di un racconto scadente, oppure del tutto surreali ma profondamente vere, come l’uomo-scarafaggio di Kafka.
Ovviamente la letteratura, proprio nel senso di leggere tanti libri, è un bel modo per sperimentarlo e per esercitarsi. Come le parole-materia di Simenon, la cui poesia per dire che piove stava proprio nel dire «piove», non «il cielo piange». Così come, al contrario, proprio perché la metafora è il mistero più alto del nostro linguaggio, il suo uso è tanto difficile quanto efficace o fuorviante, a seconda dei casi. Specie in politica, dove basta mettere a confronto la potenza del «Yes, we can» di Obama con la fiacchezza dell’imitazione veltroniana «Si può fare»: roba da Frankenstein Junior , in effetti, rispetto all’immagine finora insuperata nel linguaggio politico italiano degli ultimi vent’anni, che ovviamente resta la «discesa in campo» di Silvio Berlusconi.
Con un avvertimento per smascherare le tre ragioni che stanno dietro il parlare oscuro: pigrizia, narcisismo, esercizio del potere. Più un consiglio sulla premessa fondamentale del parlar chiaro: e cioè avere una cosa da dire.