giovedì 26 novembre 2015

Corriere 26.11.15
La luce del Re Sole nei giorni bui
Detestava l’ingegno premiava gli adulatori riduceva a puri servi tutti i suoi dipendenti Oppresso da nemici angosciato da sventure seppe lottare da solo con costanza mirabile
Il sovrano francese, egoista e vanitoso, seppe tuttavia riscattarsi quando la sorte si accanì su di lui
di Pietro Citati


Il libro Il re Sole , che Jean-Michel Gardair ha estratto dai Mémoires di Louis de Saint-Simon (Castelvecchi), è una delle più belle vite di re e uomini politici che siano mai state scritte. Quale penetrazione psicologica, quale potenza di sguardo, quale forza di rappresentazione: forse nessuna parte dei Mémoires porta così in fondo e all’estremo i doni artistici di questo memorialista impareggiabile.
Saint-Simon osserva, vede, sfrutta le osservazioni di molti testimoni, fondendole in un impasto compatto e smagliante. Non racconta i primi anni di regno di Luigi XIV, asserviti e soffocati dal giogo della regina e del primo ministro: coglie il giovane re quando sentì che l’ozio era nemico della gloria e, dopo aver tentato qualche debole colpo di mano ora in una direzione ora in un’altra, cominciò ad odiare qualunque primo ministro o qualunque ecclesiastico del Consiglio. Luigi XIV, morto 300 anni fa nel 1715, voleva governare da solo: in tutta la vita vantò ed esaltò il potere assoluto, l’autonomia e la magnificenza del potere regale.
Era naturalmente egoista: naturalmente vanitoso; le lodi e le adulazioni gli piacevano a tal punto che quelle più grossolane erano ben accolte, e le più smaccate ancor meglio apprezzate. La maniera migliore per ingraziarselo era l’arrendevolezza, la cortigianeria, l’aria ammirata, sottomessa, strisciante: soprattutto l’aria di non essere nulla se non grazie a lui. Fin dalla giovinezza, il «veleno abominevole» della adulazione lo aveva deificato nel cuore stesso del cristianesimo. I ministri, cercando la propria potenza, lo inebriarono con l’idea della sua autorità, grandezza e gloria, fino a spegnere in lui l’equità, e il desiderio di conoscere le verità che Dio gli aveva concesso.
Era geloso. Per le funzioni più importanti del regno scelse persone inesperte e persino mediocri, che gli piacevano appunto per la loro ignoranza. La cecità delle scelte, l’orgoglio di far tutto, la gelosia per i vecchi ministri e generali, la vanità lo condussero spesso quasi al disastro. A poco a poco, ridusse tutti quanti i suoi dipendenti a servi, accrescendo all’estremo la propria condizione regale.
Senza pietà, con la ferocia di uno sguardo acutissimo, Saint-Simon smonta la statua che Luigi XIV edificò a se stesso. La colpisce proprio distruggendo il suo dono più ostentato: Luigi XIV — egli dice — «era nato con un’intelligenza meno che mediocre». Non possedeva una vera natura: ma il dono di plasmarsi, smussarsi, affinarsi, prendere a prestito idee e sentimenti, approfittando di vivere con persone più intelligenti di lui. Se era convinto di stabilire e decidere ogni cosa da solo, in realtà non decideva da solo che in piccolissima parte, e per caso. Venne sempre governato da ministri e amanti. Il suo regno — dice Saint-Simon — «fu così poco suo, ma così tanto di altri, che seppero dominarlo in modo continuo».
Luigi XIV non aveva ingegno. A mala pena, gli insegnarono a leggere e a scrivere: rimase talmente ignorante che non sapeva nulla delle nozioni storiche più comuni. Detestava l’ingegno, l’elevatezza dei sentimenti, il sentirsi qualcuno, l’essere rispettato, l’avere un cuore nobile, la cultura; e più gli anni passarono, più questa avversione crebbe. Lui, il «grande re», il «Re Sole», era assai meno di una luna: per tutta l’esistenza coltivò le cose piccole e minute: si piccò di conoscere le questioni militari fino negli infimi dettagli; e aveva un debole per i particolari più insignificanti della vita di corte.
Saint-Simon non teme di contraddirsi quando rappresenta questo re mediocre come un grande re. Infatti, fin dall’inizio, Luigi XIV assunse un’aria cortese e galante che conservò sempre per tutta la vita e che riuscì a fondere con la maestà e il decoro. In mezzo a tutti gli altri uomini, la sua figura, il portamento, i modi, la bellezza o l’aspetto imponente che prendeva il posto della bellezza, il suono della voce, l’agilità, la grazia naturale di tutta la persona lo fecero distinguere fino alla morte «come la regina delle api».
Parlava bene, con proprietà di linguaggio, e raccontava aneddoti e storie meglio di qualsiasi altra persona. I suoi discorsi, anche i più comuni, non erano mai privi di una grandezza naturale ed evidente. Nessun principe possedette a tal punto l’arte di regnare: una cortesia ragguardevole, una serietà perfino nella galanteria, una maestà in ogni cosa. La sua cortesia era misurata, giusta, capace di distinguere l’età, il merito, il rango. Amava lo splendore, la magnificenza, la profusione: trasformò questi gusti in una massima di vita, imponendola dappertutto a corte. Faceva sfoggio di lusso nell’abbigliamento, nei pranzi, negli equipaggi, nelle costruzioni e nel gioco, sebbene impoverisse lo Stato.
Quando la reggia si spostò da Parigi a Versailles, dove poteva fuggire la presenza del popolo, Luigi XIV raggiunse la sua estrema ambizione.
A Versailles vedeva tutto: guardava a destra e a sinistra al suo risveglio, al momento di coricarsi, durante i pasti, passando negli appartamenti e nei giardini: guardava e vedeva tutto; niente e nessuno sfuggiva e si nascondeva al suo sguardo tirannico. Voleva essere informato su quanto avveniva dovunque: nei luoghi pubblici, nelle case private, nelle occasioni mondane, nel segreto delle famiglie. Assoldò spie e delatori. La sua curiosità implacabile obbligò i dirigenti della posta ad aprire le lettere, cancellando, solo per lui, ogni segreto e mistero dalla vita della Francia.
La parte più bella di questa bellissima Vita è l’ultima, dove Saint-Simon si urta e si scontra con la sola figura di cui abbia venerazione e timore. L’aristocrazia e la Francia erano decadute. Dio, l’unico grande, l’unico sconosciuto, apparve in piena luce: «La sua mano onnipotente arrestò d’un tratto l’ultima rovina di quel re così presuntuoso e così superbo, dopo avergli fatto gustare a lunghi sorsi la sua debolezza, la sua miseria, il suo nulla».
Dio colpì Luigi XIV nella famiglia: il principe di Conti e il principe di Condé morirono a sei settimane l’uno dall’altro. Il figlio del principe di Condé morì un anno dopo: Monseigneur in seguito. Tutte queste disgrazie assalirono Luigi XIV con rapidità e ferocia. «Chi saprebbe spiegare — scrive Saint-Simon — gli orrori che accompagnarono le ultime tre disgrazie, le loro cause, i sospetti di avvelenamento, così artificiosamente seminati e inculcati, e i crudeli effetti di questi sospetti? La penna si rifiuta di scrivere su questo abominevole mistero, su questo capolavoro delle tenebre».
Solo in questi momenti, Luigi XIV diventò ciò che aveva sempre sognato ed ostentato di essere, e non era mai stato: un grande re. Oppresso, all’estero, da nemici che si prendevano gioco della sua impotenza, angosciato in famiglia da catastrofi strazianti, senza la consolazione di nessuno, ridotto a lottare da solo contro orrori spaventosi, Luigi XIV oppose una costanza mirabile: la fermezza d’animo, l’uniformità esteriore, la cura di reggere il timone finché poteva, una speranza contro ogni speranza, un’apparenza sempre regale. Pochi uomini ne sarebbero stati capaci.
Nelle ultime pagine, il tocco di Saint-Simon diventa meravigliosamente e fastosamente biblico: suonano accenti ed orchestre che finora avevano taciuto. «Luigi XIV seppe umiliarsi in segreto sotto la mano di Dio, implorarne la misericordia, senza per questo avvilire agli occhi degli uomini né la sua persona né la sua corona. Che abisso di debolezza, miseria, vergogna, annientamento provato, goduto, assaporato, aborrito e tuttavia sopportato in tutta la sua vastità, e senza averne potuto né allentarne né alleggerirne i legami! Oh, Nabucodonosor! Chi potrà sondare i giudizi di Dio, e chi oserà non annullarsi in loro presenza?».