mercoledì 25 novembre 2015

Corriere 25.11.15
Gli stessi volti dei terroristi dell’Algeria
Sono giovani che credono di essere i soli ad avere problemi
di Elisabetta Rosaspina


PARIGI Otto anni di guerra al terrorismo, come ufficiale delle forze armate algerine, e 36 anni di vita militare hanno lasciato tracce nel piglio, nello sguardo, nelle convinzioni di Mohammed Moulessehoul, 60 anni, da 15 in esilio e scrittore a tempo pieno in Francia con lo pseudonimo di Yasmina Khadra. E anche nei suoi romanzi: «Per capire quello che sta accadendo basta leggere questi miei due libri», dice, porgendo un foglietto sul quale ha annotato i titoli in italiano. Gli agnelli del Signore e Cosa sognano i lupi? (Mondadori).
Sono usciti molti anni fa...
«Certo. Quello che succede in questi giorni a Parigi io l’ho visto arrivare. Amici e colleghi cui avevo detto: verrà un giorno in cui non potremo più sederci alle terrazze dei caffè parigini e andare a vedere un film, mi hanno telefonato per dirmi che avevano pensato a me, la sera degli attentati ai ristoranti».
E lei, come lo ha saputo?
«Da mia figlia. Guardavo Francia-Germania, quando è venuta a dirmi che c’era stato un attacco terroristico con 18 morti qui a Parigi, poi si è corretta: i morti erano saliti a 28. Sono arrivate le prime immagini e lì io ho rivisto l’Algeria degli Anni 90. Mi è sembrato che il tempo fosse tornato indietro, di essere ancora ad Algeri, a Orano, nei villaggi del mio Paese. Sebbene me lo aspettassi, non volevo crederci».
Perché se lo aspettava?
«Dal carnevale che si produce ogni sera nei salotti tv, dove sfilano filosofi e intellettuali che non hanno capito nulla e continuano a girare il coltello nella piaga, aizzando l’opinione pubblica, facendo di tutta l’erba un fascio, e soprattutto presentando la religione come l’origine di una minaccia imminente. Non lo è. Quei giudizi grossolani sono serviti soltanto ad alimentare la collera. Quei discorsi di odio sono stati usati dagli integralisti per rendere ancora più efficaci le loro prediche. La reazione era prevedibile».
Quei dibattiti si fanno ovunque. Perché, in Europa, è la Francia la più colpita?
«Perché è un Paese speciale. Il Paese dei diritti dell’uomo. Ha un’aura che altri Paesi non hanno nella coscienza collettiva. Colpire Parigi è colpire la luce, l’eleganza, il saper vivere».
Non hanno scelto i quartieri alti, ma il X° e l’XI°, popolari e tolleranti.
«Non importa che non fossero i quartieri ricchi. Hanno colpito le libertà; sapevano che ferendo Parigi avrebbero suscitato scalpore nel mondo intero».
Dovremo abituarci a vivere sotto minaccia?
«Sì, ma non bisogna cessare di vivere normalmente. Chiedete all’Algeria come sia riuscita a sopravvivere alla tragedia che la divorava tutti i giorni».
E cosa risponderà l’Algeria?
«L’Algeria vi dirà che la vita, qualunque vita, che appartenga a un ricco o a un povero, merita di essere vissuta fino in fondo».
Anche questa volta i jihadisti sono francesi di seconda o terza generazione, proprio come alcune delle loro vittime: pensa che…?
«No, questa non è una buona domanda. La vera domanda è: chi sono questi terroristi? Sono il nostro nemico comune. E non bisogna continuare a cercare nelle identità delle vittime per compatire una comunità o l’altra. Bisogna attingere dal sangue versato le lacrime che ci uniscono».
Mettiamola così: che cosa ha letto sui volti degli attentatori, diffusi in questi giorni?
«Ho visto gli stessi volti di coloro che colpivano l’Algeria quando ero un ufficiale e li combattevo. Come allora, sono giovani che credono di essere i soli ad avere subito ingiustizie, dimenticando che tutti, o quasi, i loro coetanei hanno difficoltà a trovare un lavoro e un posto nella società. Ma loro si sentono rinchiusi in un ghetto, senza uscita. Di frustrazione in frustrazione, coltivano le loro ossessioni; e il loro odio sordo viene strumentalizzato dai guru integralisti. Che dicono loro: non è vero che valete meno di niente. Noi vi offriamo l’occasione di essere migliori di quelli che vi disprezzano».
Oggi però c’è l’Isis.
«Già vent’anni fa i terroristi in Algeria parlavano del Califfato. Volevano il loro Stato, dal quale diffondere l’ideologia integralista e la guerra all’Occidente. Hanno fallito in Algeria, ma George Bush li ha aiutati a rinascere dalle loro ceneri: uccidendo Saddam Hussein, ha eliminato il miglior alleato della laicità; distruggendo le istituzioni statali in Iraq, ha consegnato il Paese ai terroristi».
Può immedesimarsi nel latitante Salah Abdeslam, come si è immedesimato in Gheddafi nel suo ultimo libro?
«Dev’essere molto spaventato. Si nasconde dai suoi mandanti più che dalla polizia, perché non ha portato a termine la sua missione: forse ci ha ripensato. Vorrei dirgli di costituirsi e, per farsi perdonare, di collaborare. In Algeria ha funzionato: si mandavano i pentiti in tivù a dissuadere altri che, come loro, fossero tentati dalla jihad».
Perché la religione non c’entra?
«Perché questi terroristi sanno dell’Islam soltanto quel che i guru dicono loro per manipolarli. La promessa del paradiso funziona con chi non crede più di poter realizzare le sue aspirazioni sulla terra. Ma per ogni catastrofe creata dall’umanità esiste una soluzione».