martedì 24 novembre 2015

Corriere 24.11.15
Piani regionali e finanziamenti. I conti che non tornano. Lo stallo Mancanza di trasparenza e criteri non omogenei: le critiche dai centri Dire
A che punto sono i programmi di aiuto. Come abbiamo imparato a chiudere prima le storie «tossiche»


Ancora un 25 novembre che per molti, e molte, potrà sembrare ridondante di convegni, rassegne, appelli, simboli. C’è chi si chiede se la parola femminicidio abbia allontanato più che sensibilizzato sui temi che riguardano il rispetto, la parità e le relazioni tra uomini e donne; se la parola femminista chiuda l’attenzione a circoli ristretti. In dieci anni il riflettore che accende il 25 novembre ha comunque portato nelle case l’idea che botte in famiglia, molestie, stupri non appartengono alle normali relazioni tra donne e uomini. Dal 2005, il 25 novembre ha obbligato la politica italiana, la società, i media, le persone a prendere atto che non sono fatti privati. Non riguardano l’intimo di chi li fa e chi li subisce, non sono una questione femminile. Qualcuno pensa sia ancora troppo poco. È una consapevolezza. I cambiamenti sociali sono lenti, ma hanno spinto il governo a legiferare, non senza polemiche, per rispondere all’emergenza .
Un 25 novembre, allora, in cui tirare le fila. Meno silenziose, meno isolate, meno disposte a subire sono le donne secondo l’ultimo rapporto Istat. L’informazione più attenta e il clima di condanna hanno dato qualche risultato. Sottile, ma c’è: raddoppiano quasi le denunce e le richieste di aiuto, le donne mostrano maggiore consapevolezza e capacità di chiudere i rapporti violenti o prevenirli. Le violenze fisiche e psichiche hanno una leggera flessione ma sono quasi raddoppiate le aggressioni che causano ferite, mentre il calo di quelle psicologiche può far pensare che anche tra gli uomini ci sia una nuova presa di coscienza. I numeri restano, però, impressionanti: quasi 7 milioni di ragazze e donne mature sono state oggetto di violenza fisica o sessuale.
Le donne uccise sono solo l’ultimo atto di uno schiaffo, un whatsapp troppo invadente, un ordine (a non lavorare, a non vedere certi amici, a non portare quella gonna), che a volte sembra ancora amore. Non è amore, e il concetto va ripetuto. Sconcerta il numero delle sopravvissute per un filo, 101 nel 2014, secondo la Casa delle donne per non subire violenza di Bologna. Per una donna aggredita e malmenata, e per i suoi figli, uscire da quelle dinamiche può prevedere tempi lunghi, intraprendere un percorso che ha bisogno di rifugio in case «protette», di sostegno economico, in alcune situazioni di formazione professionale e inserimento a un lavoro. Deve cambiare la loro vita. Consulenze psicologiche e legali, ascolto e sostegno per chi sta vivendo situazioni difficili sono il primo passo. Centri antiviolenza, medici di famiglia, ospedali e pronto soccorso, avvocati, psicologi, operatori sociali, polizia e carabinieri sono in prima fila. Ma fanno anche i conti con finanze ristrette. La legge nazionale era una «soluzione d’urgenza» per portare ossigeno ai fondi esigui, segnalati soprattutto dai centri, dando alle Regioni il compito di distribuire le risorse, 16 milioni di euro. La questione dei fondi, del coordinamento e del monitoraggio sono diventati cruciali. E terreno di scontro tra le associazioni che gestiscono centri e case e le istituzioni.
Il dipartimento Pari Opportunità ha pubblicato questa settimana una mappa che sintetizza l’entità e l’uso dei fondi nazionali arrivati alle Regioni. Piani antiviolenza e leggi regionali hanno programmato nuovi centri e nuove case rifugio, prevedendo di integrare i fondi nazionali con altre risorse. Ovunque si stanno organizzando incontri di formazione per medici, avvocati, operatori sociali e forze dell’ordine. Fiori all’occhiello sono le Reti multidisciplinari che coinvolgono quelle stesse persone e strutture a cui si rivolgono mogli, ex mogli e compagne nel momento dell’emergenza o quando decidono di chiedere aiuto per allontanare il partner o l’ex. Ne conoscono i bisogni. Quegli stessi servizi sono rappresentati ai tavoli di consultazione per impostare criteri, azioni e percorsi. Presenti, in alcune regioni da diversi anni, gli Osservatori che dovrebbero rilevare i dati per contribuire al monitoraggio nazionale. Alcune Regioni tentano strumenti innovativi. La Lombardia, per esempio, che ha appena varato un piano da 14 milioni in 4 anni, prevede un organismo tecnico che dovrà identificare le prassi migliori e nei casi di femminicido individuare i «buchi» del sistema. Previsti interventi nelle scuole perché le nuove generazioni crescano rispettandosi e considerandosi pari e politiche per la presenza femminile al lavoro e nei luoghi decisionali.
Siamo sulla buona strada? Le leggi e l’attenzione dei media hanno portato gli enti a interrogarsi e intraprendere azioni politiche. Nella pratica, però, diverse sono le contestazioni da parte di associazioni.
Dire, che riunisce molti dei centri antiviolenza e case rifugio di formazione femminile, denuncia poca chiarezza nella distribuzione e frammentazione di finanziamenti, peraltro esigui. I centri non hanno ricevuto il denaro, in molte situazioni fanno sì parte dei «tavoli», ma inascoltati. Funzionano grazie al volontariato, a sostegni dei comuni, a donazioni raccolte con iniziative di autofinanziamento. L’impegno delle Regioni sembra disperdersi in rivoli non solo economici. Due le accuse più forti: manca trasparenza e gli Osservatori regionali hanno criteri diversi e difficilmente potranno confluire nell’atteso monitoraggio nazionale, che ha appena nominato i suoi membri e non ha ancora fissato i criteri.
Il panorama è ancora confuso. Come per l’8 marzo o il 14 febbraio, anche per il 25 novembre un giorno da solo non basta.
Luisa Pronzato