venerdì 20 novembre 2015

Corriere 20.11.15
Michel Onfray
Il seme della guerra
«Il 13 novembre è una risposta agli atti avviati in Iraq 25 anni fa La Francia ritiri tutte le sue truppe»
intervista di Sebastien Le Fol


Dopo gli attentati di Parigi, lei ha scritto su Twitter: «La destra e la sinistra, che hanno seminato la guerra in tutto il mondo contro l’Islam politico, oggi si ritrovano la guerra dell’Islam politico in casa propria». Non le pare di fare il processo alla vittima, anziché al colpevole?
«Il capo dello Stato ha parlato di «atto di guerra». Così pure repubblicani e partito socialista. È già un passo avanti. Poco tempo fa si parlava ancora di gesti di squilibrati, di lupi solitari. Ma quando si tratta di guerra, bisogna riflettere. Ciò che è accaduto il 13 novembre è certamente un atto di guerra, ma in risposta ad altri atti di guerra che hanno preso avvio con la decisione di distruggere l’Iraq di Saddam Hussein, da parte del clan Bush e dei loro alleati, 25 anni fa. La Francia ha fatto parte sin dall’inizio, a eccezione del governo Chirac, della coalizione occidentale che ha dichiarato la guerra a Paesi musulmani come l’Iraq, l’Afghanistan, il Mali, la Libia… questi Paesi non ci minacciavano affatto, ma noi siamo intervenuti a negare la loro sovranità».
Lei pensa davvero che i terroristi siano soldati dell’Islam politico?
«E allora che cosa sono? Se sono tutti schedati come appartenenti ai movimenti dell’islamismo radicale, non si tratta forse dell’Islam politico? Negarlo equivale a chiudere gli occhi. È una cecità colpevole, pericolosamente colpevole. Si tratta ovviamente delle frange radicali e politiche dell’Islam salafita».
La loro radicalizzazione è frutto di una scelta razionale?
«Certamente. È una guerra condotta dall’Islam politico con altrettanto acume dell’Occidente, ma con meno armi o con armi diverse dalle nostre – coltelli e non portaerei, Kalashnikov da 500 euro e non droni da milioni di dollari. Anche loro hanno teologi, ideologi, strateghi, informatici, esperti di tattica militare. Hanno anche i loro soldati, agguerriti e pronti a tutto, invisibili ma presenti in ogni angolo del pianeta. Diverse migliaia di loro vivono in Francia. Hanno una loro precisa visione della storia, cosa di cui noi siamo oggi incapaci, accecati dal nostro materialismo triviale che obbedisce ai trucchi elettorali, alle mafie del denaro, al cinismo economico, alla tirannide dell’attimo mediatico. Il califfato ha manifestato apertamente le sue intenzioni. Ma il nostro rifiuto è colpevole: negar loro il diritto di dire che sono uno stato islamico, ricorrendo alla definizione ipocrita e politicamente corretta di Daesh, trasformarli in barbari, etichettarli come terroristi, tutto questo porta a sottovalutare la loro reale natura, che non merita affatto il nostro disprezzo. Soprattutto se si auspica di raggiungere un giorno una soluzione diplomatica».
Nel suo comunicato di rivendicazione Daesh dice, a proposito delle vittime del Bataclan, che si trattava di «centinaia di idolatri in una festa di perversione». Queste persone non ci odiano innanzitutto per quello che siamo?
«Si tratta di uno scontro di civiltà. Ma l’atteggiamento politicamente corretto in Francia proibisce che ciò venga detto. Faccio notare che anche la Francia possiede «un’identità nazionale», e questa riemerge spesso e volentieri quando l’identità islamica la fa risaltare nel contrasto di questo momento storico. Ma siccome riteniamo ugualmente sconveniente menzionare l’identità francese, per molto tempo non è stato possibile affermare che sì, esiste un modo di vivere all’occidentale che non corrisponde in nulla a quello islamico. I propugnatori del multiculturalismo ammettono che esistono molte culture diverse e tra queste alcune che difendono la musica rock nelle serate festive e altre che le giudicano una «festa della perversione». Le culture hanno tutte lo stesso valore? Sì, dicono i paladini del politicamente corretto. Personalmente, ritengo superiore una civiltà che consente la critica rispetto a una che la vieta e punisce con la morte il minimo dissenso».
La Francia deve abbandonare la coalizione internazionale in Siria e in Iraq?
«Sono a favore di un ripensamento totale della politica estera francese. Se continueremo a condurre una politica aggressiva contro i Paesi musulmani, questi reagiranno come già stanno facendo. Inviare truppe di terra in Siria equivale a gettare fiumi di benzina sul fuoco. La Francia dovrebbe rinunciare alla sua politica neocoloniale e islamofoba allineata sulle posizioni statunitensi. Dovrebbe ritirare tutte le sue truppe d’occupazione da ogni missione militare. A quel punto sarebbe possibile firmare una tregua tra lo stato islamico e la Francia, e far in modo che i suoi militanti, oggi presenti sul nostro territorio, depongano le armi».
Agli attentati di gennaio era seguito un movimento di unità nazionale. Succederà lo stesso dopo la tragedia del 13 novembre? Oppure lei teme una guerra civile?
«Ci vorrebbe una grande politica, di cui Hollande non è capace: non lo è mai stato e non lo sarà mai in futuro. Ho paura che le organizzazioni di estrema destra, quella vera (non quella che i politicanti strumentalizzano associandola a Marine Le Pen) finiranno per armarsi, si raggrupperanno in milizie e daranno avvio a operazioni di commando, con pestaggi, spedizioni punitive, incendi di moschee e altre azioni criminali per destabilizzare la democrazia».
( traduzione di Rita Baldassarre)