Corriere 18.11.15
Julia Kristeva
«Ora è giusto combattere No ai riflessi della mia sinistra»
I giovani a rischio «All’ospedale Cochin vedo i ragazzi tentati dall’integralismo, vanno presi in tempo»
intervista di Stefano Montefiori
«Bisogno di credere - Un punto di vista laico» è un’opera importante pubblicata quasi 10 anni fa (in Italia da Donzelli) da Julia Kristeva, grande personalità — «scrittrice, donna, madre di famiglia e analista, non mi chiami intellettuale» — della cultura europea.
Oggi che il «bisogno di credere» insopprimibile in tanti giovani prende la strada del delirio jihadista, il lavoro di Julia Kristeva resta in primo piano. La scrittrice nata in Bulgaria e francese da mezzo secolo lavora alla «casa degli adolescenti» dell’ospedale Cochin di Parigi per aiutare con i mezzi della cultura e della psicanalisi i ragazzi tentati dall’islamismo.
Intanto, signora Kristeva, come descriverebbe la reazione della società francese in queste ore?
«Posso parlare di quello che vedo, che sento dai miei pazienti, e dei miei sentimenti. Per la prima volta da quando sono in questo Paese, e sono passati oltre cinquant’anni, le persone credono nell’unità nazionale. Non quella dei politici ma quella del popolo».
I politici sono divisi?
«Mi sembra che stia accadendo il contrario rispetto ai giorni di Charlie Hebdo. Allora la classe politica era compatta ma i cittadini in difficoltà, alcuni musulmani esitavano per la questione delle caricature del profeta. Oggi i politici continuano a litigare, ma la gente mi sembra più compatta, anche i musulmani si sentono attaccati nel loro essere francesi e reagiscono. Per la prima volta ho sentito dignitari musulmani condannare certi imam che magari non predicano la jihad, ma comunque criticano il modo di vita occidentale, la gioia di amare, cantare, bere. Trovo che sia un buon segno».
Che cosa pensa dell’affermazione di Hollande e del governo? La Francia è davvero in guerra?
«Sì, la guerra è arrivata in Francia, ed è giusto combatterla. Non voglio restare nei riflessi consueti della mia famiglia politica, la sinistra. La guerra non è una cosa da americani, bisogna farla quando è necessario, prendersi la responsabilità della più grande fermezza e anche andare oltre, chiedere conto a Stati come l’Arabia Saudita o il Qatar della ricchezza sospetta dell’Isis. E domandare di più all’Europa, la cui impotenza è scandalosa».
La società francese è pronta?
«Le persone si rendono conto della situazione e sono fiere di essere francesi. Le racconterò questa piccola storia. Io ho imparato la Marsigliese in Bulgaria, e piangevo quando la cantavo perché pensavo che non mi avrebbero mai lasciato andare a conoscere questo popolo. Poi sono venuta in Francia e in cinquant’anni non ho mai pianto cantando la Marsigliese. Adesso, anche davanti alla tv, canto e piango, e come me fanno in tanti. È una svolta nell’opinione pubblica. I politici continueranno pure a litigare, ma la popolazione è sconvolta e unita intorno ai simboli della Repubblica. Ognuno si darà da fare come può».
Quale compito si è data?
«Cercare di interpretare, da laica, il fenomeno spirituale, di non lasciarlo in mano ai pazzi che se ne servono per compiere queste atrocità. I terroristi si servono dell’Islam e bisogna contrastarli su questo terreno, senza reticenze e senza paura di essere accusati di islamofobia. Per sottrarre l’Islam alla strumentalizzazione del terrorismo anche noi occidentali possiamo fare qualcosa, per esempio cambiare l’atteggiamento dell’illuminismo che si è costruito in contrapposizione alla religione e rivalutare il patrimonio spirituale del cristianesimo, dell’ebraismo e dell’islam, prenderlo sul serio e preparare i nostri giovani a fare fronte alla propaganda jihadista. Se neghiamo il “bisogno di credere”, la voglia di spiritualità dei ragazzi, li lasciamo in preda ai manipolatori di internet o delle moschee radicali. I giovani hanno bisogno di ideali, e quando sono fragili, senza lavoro e discriminati i loro ideali crollano, il desiderio di amore è inghiottito dal bisogno di vendetta, quel che Freud chiama la pulsione di morte. Dobbiamo rivalutare il patrimonio religioso, insegnarlo nelle scuole, non per inculcare la religione ma per interrogarla, interpretarla, problematizzarla, non lasciarla ai predicatori di morte».
Qual è la sua esperienza con gli adolescenti?
«Il mio insegnamento sul bisogno di credere l’ho trasferito all’ospedale Cochin, dove si curano gli adolescenti in preda all’anoressia, al vandalismo, alle tendenze suicide, e sempre più famiglie mandano ragazzi radicalizzati, tentati dall’islamismo integralista. Non sono ancora partiti per la jihad ma potrebbero farlo un giorno, bisogna prenderli finché siamo ancora in tempo».
Questi ragazzi tentati dall’islamismo radicale hanno una storia comune?
«Ognuno è diverso ma si tratta di famiglie spesso di immigrati di prima o seconda generazione, dove i genitori sono assenti, il padre di solito non c’è e la madre lavora. A scuola vanno abbastanza bene nelle materie scientifiche e male in francese e in generale nelle scienze umane, dove bisogna porsi qualche domanda su se stessi. Alcuni si drogano. Si attaccano a una ideologia mortifera ma che promette loro il paradiso, e risponde al loro bisogno di spiritualità, di ideali. Anche l’Occidente dei Lumi deve preoccuparsi di rispondere a questo bisogno, il nostro umanesimo deve rifondarsi. Io, da psicanalista, cerco di salvare i ragazzi dall’integralismo prima che sia troppo tardi. Gli intellettuali mediatici sono i clown dei politici, non voglio essere accomunata a loro. La guerra purtroppo va fatta. Ma io mi occupo di prevenzione».