Corriere 18.11.15
Amos Oz
«Ci vuole un piano Marshall ma l’Islam moderato si muova»
Gaza. Fare di quella regione un posto migliore per chi ci vive sarebbe un colpo contro l’Isis
intervista di Lorenzo Cremonesi
«Ho sempre rifiutato in cuor mio e apertamente le teorie del cosiddetto “scontro di civiltà” per il semplice fatto che anche nelle mie esperienze personali e pubbliche ho generalmente trovato che per ogni musulmano violento e fanatico ce ne sono migliaia, anzi, decine di migliaia che non lo sono. Magari sono arrabbiati, offesi, frustrati, ma non sono fanatici e rifiutano la violenza». Parla diretto Amos Oz. Negli ultimi tempi aveva preferito restare zitto. L’avevamo interpellato più volte per un’intervista. Ma lui preferiva declinare. «Sono troppo arrabbiato», diceva. Sta scrivendo un nuovo romanzo (intanto in Italia Feltrinelli a breve pubblicherà il suo primo, l’inedito Altrove, forse). Ma le cronache della strage di Parigi adesso lo stimolano a reagire.
Nel mondo occidentale crescono rabbia e paura, tornano in auge le tesi di Samuel Huntington sullo «scontro di civiltà», i libri di Oriana Fallaci, il romanzo «Sottomissione» di Michel Houellebecq. Domina una domanda: come rapportarci con l’Islam, come difenderci?
«Non sono un pacifista, non lo sono mai stato e certo non lo sono ora di fronte agli ultimi avvenimenti. Non sono mai stato contrario alla necessità che, quando serve, occorre utilizzare il bastone. Però sono profondamente convinto che l’unica forza al mondo davvero capace di combattere e sconfiggere i fanatici musulmani, oltreché aiutare l’Occidente a trovare le difese necessarie, siano i musulmani moderati. Sono loro, prima di tutti, che dovrebbero fare un passo avanti, alzare la voce, scoprire, denunciare i fanatici nei loro quartieri e impugnare il bastone quando necessario».
Anche contro questa ondata di integralismo che va dall’estremo Oriente, al mondo arabo, al cuore delle nostre città in Europa?
«Posso rispondere con una storia personale, la ritengo rilevante, anche se forse l’ho già raccontata?».
Certo.
«Circa un anno fa ero ricoverato all’ospedale per un’operazione. Una sera venne al mio letto un’infermiera, un’araba-palestinese di cittadinanza israeliana. Aveva appena terminato il suo turno di lavoro. Mi chiese se poteva parlarmi. Io le risposi che ne sarei stato ben felice e così lei raccontò qualche cosa che non dimenticherò mai. Mi disse: “Tutto il mondo quasi ogni giorno vede sugli schermi delle televisioni le manifestazioni delle masse arabe che inneggiano alla guerra santa, agitano i pugni lanciando slogan di sfida e violenza, glorificano i kamikaze contro gli infedeli negli Stati Uniti, Israele ed Europa. Vogliono essere gli unici rappresentanti dell’universo islamico. Ma, chiunque osservi con attenzione, noterà che sono praticamente solo uomini, per lo più giovani di età compresa tra i sedici e trent’anni. Sono solo una piccola parte della popolazione. Gli altri, la maggioranza, se ne restano chiusi in casa, passivi, impauriti, dietro le finestre serrate. Non li vedi mai per il semplice fatto che non sono visibili. Però, per favore, ricordati di loro, perché loro sono la vera maggioranza”. Così mi disse quell’infermiera. E da allora io spero che proprio loro scendano in piazza a manifestare contro gli altri».
Dove questa maggioranza silenziosa potrebbe essere più rilevante?
«Penso alla Turchia, alla Tunisia, alla Giordania, all’Egitto, al Pakistan, all’Indonesia. Ma in realtà esiste dovunque per il semplice fatto che va compreso che questa, prima che essere una guerra contro l’Europa e l’Occidente, è una guerra interna all’Islam, per il suo cuore, è un conflitto sul significato e l’identità musulmani. L’Europa, gli Stati Uniti e gli altri partner coinvolti possono aiutare gli elementi più aperti e moderati. Ma lo sforzo maggiore devono farlo loro, il loro futuro è nelle loro mani».
In termini pratici, cosa significa guerra per il cuore dell’Islam?
«La grande maggioranza dei musulmani non sono Isis. Come non sono neppure Hamas, o Hezbollah, o Al Qaeda, o Al Nusra. La maggioranza deve insistere sui suoi valori, sull’imporli nelle scuole, nelle moschee».
Resta il fatto che in Europa cresce la paura dell’Islam, specie dopo l’ultimo attentato. Che fare? Al momento tra Russia e America si discute se il presidente siriano Bashar Assad debba essere parte della soluzione o meno.
«La questione non è “che fare” contro l’Islam, ma contro i fanatici islamici, che non è la stessa cosa. Io non sono abbastanza esperto sulla Siria. Non so giudicare se Assad debba restare, almeno temporaneamente, oppure venire dimesso subito. Però in questi giorni pochi ricordano il caso di un piccolo Paese arabo del Nord Africa come la Tunisia. Sarebbe invece bene tenere a mente che in Tunisia la parte moderata religiosa e laica della popolazione in ben tre tornate elettorali ha sconfitto il fronte estremista islamico. Perché l’Europa non fa uno sforzo per aiutare economicamente, politicamente e in ogni altro modo a fare della Tunisia un grande modello? Perché non farne un esempio di Islam illuminato che sia ammirato e invidiato dai Paesi vicini? Lo stesso si potrebbe dire della Giordania, dove, lo so bene, la democrazia è meno avanzata, però resta un polo di moderazione».
Giordania e Tunisia modelli di cooperazione con l’Europa?
«È un inizio, mostra la strada. Mi lasci dire che non sono un seguace della filosofia del porgere l’altra guancia quando sei aggredito. In particolare, mai farlo con i fanatici. Non ci credo. Però sono anche convinto che il bastone da solo non funzioni. Non puoi curare una ferita a suon di bastonate. Se picchi soltanto, la ferita non fa che diventare più larga e profonda. Non ha senso bastonare tutto il mondo islamico in quanto tale. Penso per esempio alla striscia di Gaza. Fare di quella regione un posto migliore per chi ci vive sarebbe un colpo grosso contro Isis e gli altri fanatici che vorrebbero speculare sulla povertà e il malcontento».
Come?
«Quasi settant’anni fa un presidente americano poco carismatico e molto modesto quale era Harry Truman decise che sarebbe stato importante donare una cifra pari a circa il venti per cento del prodotto nazionale lordo del suo Paese per la ricostruzione dell’Europa devastata dalla guerra. Poi passò alla storia come “piano Marshall”, dal nome del suo segretario di Stato. Ma fu lui il motore primo. Truman fece il miglior investimento di tutti i tempi: la Guerra fredda è stata vinta dagli Usa grazie ad esso. Lui non visse tanto a lungo per vedere il suo trionfo. Però, garantì la democrazia, salvò l’Europa dai comunisti, dagli estremisti, ne fece un modello di sviluppo invidiato in tutto il mondo, creò un grande mercato utile anche all’industria americana. A noi oggi serve un gigante di generosità e capacità di guardare avanti come fu Truman. Ci vorrebbe un piano Truman-Marshall per il mondo islamico che dia forza e coraggio ai moderati. Solo così il bastone della guerra ai fanatici potrà avere prospettive di successo».