Corriere 17.11.15
Le logiche elettorali del dibattito italiano
di francesco Verderami
Se la politica italiana si mostra smarrita e impreparata davanti all’Undici settembre francese, è perché la sua classe dirigente disconosce il significato della parola guerra, che pure è scritta nella Carta per essere ripudiata. Ma proprio ripudiandola i padri costituenti dimostrarono di interpretarne il senso autentico, mentre oggi i loro successori — al governo e all’opposizione — rivelano di non saperla pronunciare, o la usano solo per abusarne. Tra chi la teme e chi la nomina non c’è differenza: tutti si muovono seguendo intenti tattici e logiche elettorali. Così, dinnanzi al dramma, il dibattito interno si rappresenta in tutta la sua stucchevole inadeguatezza. «È guerra», dice Hollande davanti all’Assemblea francese, che intona la Marsigliese per chiamare a raccolta il mondo libero. In Italia, però, quella parola l’esecutivo non riesce a usarla: il premier non intende citarla, il ministro degli Esteri pubblicamente la respinge, il ministro della Difesa la tiene a debita distanza, mentre solo il ministro dell’Interno arriva a evocarla. Dall’altra parte invece i leghisti stanno già in mimetica e da giorni invocano l’internazionale della grande coalizione per una moderna lotta di liberazione. Sono gli stessi che negli ultimi anni — insieme ai Cinquestelle e a Sel — hanno sfruttato ogni triste occasione e ricorrenza per chiedere il ritiro dei contingenti italiani dalle missioni militari. La polemichetta svilisce così il dibattito sul tema più importante per un sistema democratico e sguarnisce il fronte a difesa di valori che sono stati conquistati con il sangue, e che il terrorismo islamico vorrebbe cancellare. Resta al fondo un retrogusto amaro, come quel vino che il cerimoniale italiano aveva tolto dal desco apparecchiato a Roma per il presidente iraniano Rohani. Piuttosto che cancellare il vino dal menù, a Parigi avevano preferito cancellare il pranzo.