martedì 17 novembre 2015

Corriere 17.11.15
La guerra dell’Isis. Come farla e vincerla
risponde Sergio Romano


Dopo i fatti di Parigi, ho ascoltato con sorpresa in tv un commentatore affermare che l’opzione bellica va respinta e ricercata una soluzione politica, che non ho capito quale possa essere, a meno che non intendesse dire di offrire all’Isis la possibilità di un resa onorevole con la contestuale cessazione dell’azione terroristica. Mi sembra però improbabile che l’Isis accetti, considerato il disprezzo della vita altrui, ma anche della propria, e l’idea del sacrificio estremo, per rendersi graditi ad Allah. È difficile per noi occidentali comprendere la mentalità di gente animata dal fanatismo religioso. Non sarebbe possibile neanche iniziare una qualunque forma di dialogo. Quale altra soluzione politica è possibile allora con l’Isis, se non il riconoscimento di fatto del Califfato islamico, delle città e dei territori conquistati a danno di Iraq e Siria, condannando quegli Stati alla cancellazione o alla perpetua minaccia della sopraffazione?
Alberto Voltaggio

Caro Voltaggio,
Forse il commentatore ascoltato alla televisione pensava alle guerre d’altri tempi, quando gli ambasciatori chiedevano udienza per consegnare al ministro degli Esteri di uno Stato la formale dichiarazione con cui si annunciava che le operazioni militari sarebbero cominciate a un’ora prefissata del giorno seguente. Questa prassi cominciò a traballare quando il Giappone, con qualche buona ragione, troncò un inutile negoziato e iniziò le operazioni militari contro la Russia l’8 febbraio 1904; e aveva già subito altri colpi quando i giapponesi bombardarono Pearl Harbor il 7 dicembre 1941. La guerra dell’Isis è cominciata quando lo Stato Islamico occupò Mosul nel giugno 2014 e si è progressivamente allargata sino alla nascita, negli scorsi mesi, di una grande coalizione guidata dagli Stati Uniti.
Questa guerra è diversa da altri conflitti del passato perché è asimmetrica, vale a dire combattuta dai due campi con armi diverse: i droni, i missili e i bombardieri in quello degli occidentali, il kalashnikov, il giubbotto esplosivo, il coltello di Jihadi John e altri strumenti di tortura fisica e psicologica in quello degli islamisti. Collocati in questa prospettiva, anche gli attacchi terroristici del 13 novembre sono una battaglia. Sul terreno, in Siria e in Iraq, l’Isis sta incassando colpi sempre più duri e potrebbe perdere nelle prossime settimane sia Mosul in Iraq, sia Raqqa (la sua capitale) in Siria. L’obiettivo strategico dell’operazione di Parigi mi sembra evidente: trasportare la battaglia sul fronte interno del nemico. La Francia ha una popolazione musulmana che corrisponde probabilmente al 7/8% della popolazione. Se gli attentati faranno lievitare i controlli di polizia e i sentimenti di diffidenza della società francese per la comunità islamica, sarà tanto più facile per l’Isis installare le sue quinte colonne in Francia e fare incetta di foreign fighters.
Per far fronte a questa minaccia occorre rafforzare le misure di sicurezza, ma soprattutto debellare l’Isis sul terreno. Se l’organizzazione, per esistere, ha bisogno di un territorio, occorre combatterla là dove è riuscita a installarsi con le proprie istituzioni e le proprie forze armate. Se questo non è ancora accaduto, la responsabilità è di coloro che si oppongono alla nascita di un fronte comune in cui tutti i nemici dell’Isis, dal presidente siriano al presidente russo, possano fare la loro parte.