Corriere 16.11.15
Nati con la «camicia nera». Nel Dna italiano l’ombra del Duce
In “Anoi!” (Rizzoli) Tommaso Cerno collega i difetti del Paese agli errori della stagione mussoliniana
di Antonio Carioti
Lasciti
La martellante comunicazione di Renzi, le felpe di Salvini, i diktat digitali di Grillo, i misteri Crimini impuniti
L’eccidio alla Fiera di Milano del 12 aprile 1928 è stato «cancellato dalla memoria collettiva»
«Quelli che... Mussolini è dentro di noi » cantava Enzo Jannacci, esprimendo con l’immediatezza folgorante dell’artista l’idea che il fascismo avesse lasciato un’eredità profonda nella mentalità e nei comportamenti del popolo italiano. La stessa tesi che Tommaso Cerno, studioso di storia e direttore del «Messaggero Veneto», argomenta con ampiezza nel libro A noi! , un tentativo di leggere l’Italia di oggi come una proiezione di quella che si prosternava (anche se non proprio tutta) ai piedi del Duce.
Se gli italiani sono nati con la camicia, afferma l’autore nell’introduzione, si tratta senza dubbio di una camicia nera.
Così il processo di crescente personalizzazione della politica, che si è avviato con la sbrigativa risolutezza di Craxi, poi ha trovato un interprete pirotecnico in Berlusconi e oggi produce la martellante comunicazione social di Matteo Renzi, le felpe colorate di Matteo Salvini e i diktat digitali di Beppe Grillo, viene visto da Cerno come una riproposizione più o meno aggiornata dello stile mussoliniano. Così come l’occupazione partitocratica della Rai richiamerebbe l’uso sapiente della radio e dei filmati Luce da parte del regime.
Tuttavia il problema non riguarda soltanto i vertici politici. Le considerazioni di Cerno chiamano in causa l’intera società e il costume diffuso. Ad esempio l’ossessione maschilista per il sesso, mascherata da una patina di perbenismo bigotto. Oppure il rapporto incestuoso tra la grande industria e uno Stato mangiatoia, con la pratica antica di privatizzare i profitti e socializzare le perdite a discapito dei contribuenti. Ma anche la pervasività della corruzione, da cui il fascismo, contrariamente a certi stereotipi ripetuti non solo in ambienti nostalgici, non era affatto immune: il ventennio mussoliniano fu tra le altre cose, scrive Cerno, «un continuo cantiere di ruberie, truffe ai danni dello Stato, ricatti economici ai cittadini, prebende, mostruosi conflitti d’interesse».
C’è poi il capitolo tragico dei misteri sanguinosi. L’eccidio dinamitardo alla Fiera di Milano del 12 aprile 1928 (venti morti) rimase non solo impunito, ma appare tuttora indecifrabile anche sul piano della ricostruzione storica, molto peggio della strage di piazza Fontana, anche perché oggi risulta del tutto «cancellato dalla memoria collettiva».
Insomma gli elementi di continuità sono ben solidi, anzi si ha l’impressione che i vizi denunciati da Cerno, in primo luogo la tendenza al conformismo e all’opportunismo che caratterizza gli italiani, emergano dal libro non solo come un pesante lascito del regime, che certo per alcuni versi li portò all’esasperazione, ma anche, forse soprattutto, come fenomeni di lunga durata, dei quali affiorano tracce consistenti anche in epoca prefascista e preunitaria. In fondo Giacomo Leopardi scrisse un non meno sconsolato Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani nell’anno di grazia 1823.