Corriere 16.11.15
Banlieue
Nelle periferie fuori controllo
A Courcouronnes dove è nato il kamikaze del teatro «Qui possiamo diventare solo spacciatori o soldati»
di Aldo Cazzullo
Hanno Parigi sotto mano ma non possono toccarla; da uscire pazzi. Nessuno
difende i terroristi; quasi
nessuno sostiene l’unione repubblicana, destra e
sinistra unite almeno sino ai funerali delle vittime. Né con lo Stato Islamico, né con lo Stato francese.
DAL NOSTRO INVIATO PARIGI Non amano i «barbuti», come chiamano i reclutatori islamici; ma odiano di più i poliziotti. «Nessun terrorista mi ha mai fatto questo» dice un ragazzo ivoriano mostrando sotto la camicia i segni delle manganellate.
Dalla capitale si arriva a Courcouronnes in 40 minuti di treno. Qui è nato Ismail Mostefai, il kamikaze riconosciuto dal frammento del dito indice, qui ha commesso i suoi primi reati, qui ha avuto le sue otto condanne senza fare un giorno di prigione. Nel sobborgo di Bandoufle, al 48 di rue de la Faisanderie, in una villetta con nanetto in giardino e orchidea di plastica alla finestra, vive il fratello, con la moglie Sarah, due bambini di 4 e 3 anni e una bimba di 5 mesi. Racconta la vicina bionda che sono venuti a prenderlo all’alba: reparti speciali, volto coperto, tiratori sui tetti. «Ma lui è una brava persona, non vede Ismail da anni. Fa la guardia giurata. I suoi bambini giocano a calcio con i miei nipoti. Quando è arrivato, due anni fa, ci ha invitati per l’aperitivo. L’estate scorsa siamo andati insieme a veder passare il Tour de France…».
La signora è interrotta dallo stridio di un Suv. Ne escono un uomo e una donna, il viso nascosto da un cappuccio. Secondo la Procura di Parigi il fratello di Mostefai dovrebbe essere ancora in cella, ma quest’uomo ha le chiavi di casa, entra a prendere qualcosa, esce senza dire una parola. Gli faccio una domanda in francese, mi allontana con una mano, con l’altra stringe il cappuccio. Un collega americano gli parla in arabo, lui reagisce con un ruggito, poi salta in auto, sbanda, sparisce.
Courcouronnes è un paese di piccola borghesia, con il ristorante italiano e il liceo Truffaut, circondato da «cité», cittadelle dai nomi evocativi — le Piramidi, il Canale, il parco delle Lepri —, in realtà deserti urbani: 5 mila abitanti, neanche una panetteria. Tutti indossano vesti tradizionali fino ai piedi o tute da ginnastica. Tutti hanno gli auricolari a isolarli dal mondo. Non si dicono bonjour ma salam-aleikum , non si dicono au revoir ma inshallah .
Qualcuno lavora ai mercati generali di Rungis, tra i cibi e le merci che i parigini ordinano al ristorante o comprano nei negozi; loro si limitano a scaricarle. Le altre fonti di reddito sono la droga e gli scippi, la voce popolare vuole che le squadre si siano divise i giorni — martedì e venerdì — e le specializzazioni: chi ruba i soldi a quelli che vanno al mercato, chi la spesa a quelli che tornano.
Anche una vittima della strage era nata qui. Asta Diakité lavorava per un’associazione benefica: Barakacity, la città della grazia, simbolo una cupola con la mezzaluna. La sede è tutta bruciacchiata: ogni tanto gli islamisti le danno fuoco. Dem, di famiglia senegalese, era suo amico: «Una ragazza meravigliosa, che cercava una patria. Noi siamo francesi. Ma la Francia non ci vuole. Appena sentono il nostro accento, il posto di lavoro non c’è più; appena ascoltano il nostro nome, la casa è già affittata. Alle ragazze va anche peggio. Siccome portano il velo, nessuno le assume. In piscina non possono andare perché le obbligano a mischiarsi con gli uomini». Donne e uomini insieme: cosa c’è di male? «Non è la nostra cultura. I terroristi sono stupidi perché ora noi musulmani staremo ancora peggio. Hanno fatto un favore al Front National». Marine Le Pen nel frattempo esce dall’Eliseo, dove ha chiesto a Hollande di «disarmare le banlieue, perquisirle, svuotarle dai fondamentalisti».
All’ora della preghiera, la moschea di Courcouronnes è quasi vuota. Il rettore, Khalil Merran, originario di Ceuta, Marocco, è anche il vicepresidente delle moschee di Francia. Gli hanno dato la scorta. Si fa fotografare con il vescovo e il rabbino in piazza dei Diritti dell’uomo, poi partecipa alla messa nella cattedrale di Evry. «Ismail? Qui si faceva chiamare Omar. Il ramo storto di un albero sano; la sua è una famiglia normale». Chi l’ha convertito alla jihad? «Un imam potentissimo». E chi sarebbe? «Google. Questi ragazzi non sanno nulla di religione. Sono schiavi di Internet, plagiati dalla rete. Io ho visto i siti islamisti. Sono fatti molto bene. Promettono denaro, donne, armi, potere e gloria imperitura. Ti fanno sentire parte di qualcosa».
Proprio questo manca ai ragazzi di Courcouronnes e di Montreuil, la banlieue alle porte di Parigi dove, in rue Edouard Vaillant 14, davanti al murale con una donna africana, hanno trovato la Seat nera piena di kalashnikov usata dai terroristi. Forse qui avevano un covo, o un complice. Per terra restano pezzi di vetro scuro. Siamo a 800 metri dal supermercato ebraico attaccato a gennaio. Montreuil per metà vota comunista, per metà Front National. Tra le villette dei pensionati e i grattacieli degli immigrati c’è un antico muro, costruito per proteggere i frutteti del Re Sole, che ora torna utile a dividere le due comunità.
I bastioni della Cité des Grands-Pêchers, città dei grandi peschi, si ergono come le torri del ghetto di Venezia: al numero 1 i maliani, al 2 i senegalesi, al 3 i maghrebini. È la Separazione divenuta visibile. Non entrano né tram, né bus, né auto della polizia, ma non per paura; nessuna strada la attraversa. Non si vedono i segni di cordoglio che mostra la tv; solo un display luminoso che sollecita «una reazione repubblicana e popolare».
Nei cortili ci sono due gruppi: i nonni che sorvegliano i bambini, e i ragazzi che si fanno le canne. I nonni, gli integrati, sono dispiaciuti: «È un disastro. Stanno arrivando a migliaia dal Medio Oriente: e se ci fossero terroristi infiltrati?». Anche voi siete stati migranti. «No. Noi veniamo dall’Algeria. Dipartimento della madrepatria». I ragazzi, gli apocalittici, non hanno nulla da perdere. Sono originari del Mali. Tra loro non parlano francese ma una neolingua, chiamata appunto «montreuillois», nata incrociando gli idiomi delle periferie: gitani, africani, ebraici, arabi, kabyli. Qualcuno farfuglia con gli occhi persi. Gli altri si dividono tra i pochi convinti che la guerra dichiarata alla Francia li coinvolga, e i tanti che se ne chiamano fuori.
Dieci anni fa le banlieue esplosero. A Clichy-sous-Boi, che è dall’altra parte della strada, due adolescenti in fuga dalla polizia, Zyed e Bouna, si nascosero in una cabina dell’elettricità e morirono folgorati. Venti giorni di scontri, 10 mila auto bruciate, stato d’emergenza. Da allora la Francia qui ha speso molto, anche per tenere testa ai finanziamenti legali che arrivano dal Qatar e a quelli illegali. I ragazzi riconoscono che le cose sono cambiate; ma in peggio. In mezzo c’è stata la crisi. Dice un nero altissimo, i capelli raccolti in uno chignon: «Mi piaceva la letteratura, ma in classe eravamo in 40 e non imparavo niente. Così ho smesso. Mio fratello ha fatto il lavavetri in Italia. Ho provato anch’io; ma ai semafori cercavano di mettermi sotto. Qui nessuno studia, nessuno lavora. Tranne Marcel». Chi è Marcel? «Un ex amico antillano, che si è arruolato nell’esercito. Soldati e spacciatori: questo possiamo fare. Le banlieue non sono rappresentate. Nessuno di noi è in politica, nessuno in tv, nessuno dei giornali. I registi vengono per girare i loro film, come Kassovitz, e se ne vanno. Dalla cima dei grattacieli vediamo Parigi. Si indovinano la tour Eiffel, la tour Montparnasse. Ma per noi è la città proibita». Si vorrebbe credere al titolo patriottico del reportage di Libération — «La Francia è in guerra e può contare sulle sue banlieue» —, ma non è questo il messaggio di Courcouronnes e di Montreuil: i luoghi dov’è nata e dove si è conclusa, per ora, la tragedia del 13 novembre.
Aldo Cazzullo