Corriere 11.11.15
L’ultima Cortina di Ferro
Al confine tra Nord e Sud Corea, due mondi divisi dal filo spinato Ma ora Seul scivola verso Pechino e i giochi diplomatici si riaprono
di Luigi Ippolito
Muoversi piano
Il militare sudcoreano ammonisce di muoversi piano, senza fare gesti improvvisi
Il sandwich Cina-Usa
La Corea è al centro dei movimenti geopolitici perché in posizione sandwich fra Cina e Usa
PAN MUN JOM (Confine con la Nord Corea) È tutto un gioco di sguardi. Solo che qui niente è un gioco. I tre soldati sudcoreani, immobili come statue, i pugni serrati lungo i fianchi, fissano dritti al di là della linea invisibile di fronte a loro: quella che li separa dal militare della Corea del Nord che, rigido come un manichino, qualche decina di metri più avanti, ricambia lo sguardo di sfida. Il sudcoreano che ci scorta ammonisce di muoversi piano, senza fare gesti improvvisi: non si sa quanti cecchini, e dove, possano essere appostati dall’altra parte, basta un nulla che possa essere interpretato come una provocazione e scatenare un incidente dalle conseguenze imprevedibili.
« In front of them all », Fronteggiandoli tutti, è il motto del contingente che sorveglia la zona smilitarizzata di Pan Mun Jom, 38° parallelo, confine tra le due Coree fissato con l’armistizio del 1953: l’ultimo Muro della Guerra Fredda rimasto in piedi sulla Terra. E per chi abbia fatto esperienza della Berlino divisa pre-1989, il viaggio di un’ora e mezzo dai grattacieli di Seul ai boschi di Pan Mun Jom è davvero un tuffo nel passato. Come in un romanzo di Le Carrè, si oltrepassano posti di blocco, si percorrono strade costeggiate da filo spinato e campi minati fino al surreale avamposto sull’ultimo regime stalinista al mondo, il regno di Kim Jong-un, il dittatore di Pyongyang. Da un osservatorio sopraelevato, si può scorgere la statua gigante di suo nonno, Kim Il-sung, il fondatore della dinastia comunista nordcoreana. Più sotto, il Ponte del Non Ritorno, quello che migliaia di prigionieri scambiati da una parte e dall’altra attraversarono alla fine della guerra. Chi andava di là, sapeva che non sarebbe più tornato indietro.
A Pan Mun Jom si srotola davanti agli occhi la faglia attraverso cui passano gran parte delle tensioni geopolitiche dell’Asia orientale. Perché la minaccia rappresentata dall’arsenale nucleare di Pyongyang tiene la regione, e il mondo, col fiato sospeso. E pur tuttavia il governo di Seul non ha mai abbandonato la prospettiva di una riunificazione pacifica, soprattutto ora che il Nord si sta aprendo timidamente a forme di economia di mercato, che ben si guarda però dal chiamare «riforme».
Che qualcosa si stia muovendo lo testimonia la creazione, un anno e mezzo fa, del Comitato Presidenziale per la Preparazione dell’Unificazione, sotto la guida diretta della attuale presidente della Corea del Sud, la signora Park Geun-hye. Come spiegano nella loro sede centrale, obiettivo del Comitato è creare un consenso nazionale e allo stesso tempo predisporre una meticolosa road map per raggiungere l’obiettivo.
Ulteriore segno di disgelo è la politica delle riunificazioni familiari. La divisione della Corea ha fatto sì che centinaia di migliaia di parenti si ritrovassero da una parte o dall’altra del confine, impossibilitati a mantenere qualsivoglia contatto. Il mese scorso il regime di Pyongyang ha autorizzato l’incontro tra un gruppo di famiglie separate: e al quartier generale della Croce Rossa di Seul, una anziana signora ultraottantenne racconta di come abbia potuto finalmente riabbracciare la sorella, rimasta per tutti questi decenni dietro la «cortina di bambù».
La prospettiva della riunificazione è ciò che ha spinto la presidente Park ad andare un mese fa a Pechino, unica leader di rilievo (a parte la scomoda compagnia di Vladimir Putin) a presenziare alla grande parata militare cinese per la vittoria contro i giapponesi nella Seconda guerra mondiale. Perché è Pechino che in fin dei conti tiene in piedi la Corea del Nord, che per la Cina rappresenta un conveniente Stato-cuscinetto. Anche se è evidente come oramai il grande vicino stia corteggiando sempre più la Corea del Sud: il leader cinese Xi Jinping non è mai stato finora a Pyongyang, mentre ha fatto visita l’anno scorso a Seul.
Che anche il Sud, pur legato da una stretta alleanza militare con gli Stati Uniti (che lì mantengono quasi 30 mila soldati) stia cedendo alle sirene della montante potenza cinese? «Non è vero che la Corea del Sud stia scivolando verso Pechino. Punto e basta», taglia corto il professor Taehwan Kim dell’Accademia nazionale di Diplomazia, il pensatoio della politica estera di Seul. Ma lui stesso ammette che «sul piano economico non si può non tenere conto delle relazioni commerciali fra i due Paesi, visto che oltre il 30 per cento delle esportazioni coreane sono dirette verso la Cina». E che «l’alleanza militare con l’America non è pensata come un deterrente contro Pechino, ma come un modo per contenere la Nord Corea».
La forza di attrazione cinese è dovuta anche ai rapporti problematici della Corea del Sud col Giappone, grande avversario di Pechino in Asia. «Da tre anni a questa parte le relazioni fra Seul e Tokyo hanno toccato il fondo, nonostante la comune alleanza con gli Stati Uniti», ammette il professor Kim. Nodo della contesa è la questione delle «donne di conforto», ossia le schiave sessuali tenute dalle truppe giapponesi durante la Seconda guerra mondiale. Si calcola che delle 200 mila donne ridotte in schiavitù dai militari nipponici in tutta l’Asia Orientale, almeno il 70 per cento fossero coreane. E il governo di Tokyo, soprattutto quello attuale del nazionalista Shinzo Abe, non ha mai riconosciuto appieno la propria responsabilità in quello che fu uno dei più atroci stupri di massa della storia.
Fra le esperienze più toccanti a Seul c’è proprio la visita alla Casa della Condivisione, una piccola tenuta poco lontano dalla capitale dove vengono ospitate le sopravvissute alla schiavizzazione giapponese. Queste anziane ormai novantenni raccontano di come vennero strappate adolescenti alle famiglie, spedite in giro dalla Cina all’Indonesia per «servire» nei bordelli militari, inoculate col mercurio che le ha rese sterili per sempre: vite distrutte, ferite mai rimarginate. E neppure l’incontro diretto, la scorsa settimana, fra la presidente Park e il premier Abe è riuscito a fare chiarezza su questa pagina nera.
«La Corea resta al centro dei movimenti geopolitici in Asia», conclude il professor Kim, «perché si trova in una posizione sandwich fra la Cina e gli Stati Uniti». Ma in questo momento a dare le carte nel Grande Gioco è Pechino, come si è visto col recente, storico incontro fra Xi Jinping e il presidente taiwanese Ma Ying-jeou. La Corea rivendica un proprio ruolo creativo, in quella che a Seul definiscono «diplomazia bilanciata». Ma questo esercizio di equilibrismo resisterà alle crescenti tensioni, in un momento in cui la Marina degli Stati Uniti ha deciso finalmente di sfidare le ambizioni territoriali di Pechino, navigando nelle acque contese del Pacifico? Il rischio è che il «sandwich coreano» finisca inghiottito nell’urto titanico fra il Dragone cinese e l’Aquila americana. E allora sarebbe tutta l’Asia a tremare.